Machan: la partita della vita

Ventitré giocatori di una squadra che non esiste, l’emigrazione, le scelte difficili: Uberto Pasolini mette in campo un fatto di cronaca realmente accaduto nel 2004 analizzandolo attraverso temi psicologici e sociali, con uno sguardo da docufilm.

La povertà e la disoccupazione spingono i protagonisti a lasciare il proprio Paese, lo Sri Lanka, per cercare migliori opportunità e condizioni di vita. L’allontanamento dalle proprie radici diventa per alcuni una liberazione, per altri una perdita di identità. Il concetto stesso di identità è infatti il fulcro del film: la fatica di costruirsi un ruolo, di darsi un obiettivo e di trovare un luogo a cui appartenere, in senso fisico o metaforico.

E quale luogo è migliore di uno spazio inventato, un gruppo, una squadra sportiva? Composta da un cameriere, un venditore di arance, un becchino, un truffatore e altri improbabili membri, nasce la nazionale di pallamano dello Sri Lanka con lo scopo di ottenere un visto per l’estero e una nuova prospettiva di vita. La regia riesce così ad affrontare tematiche importanti con la giusta ironia, senza melodrammi: un debutto che funziona bene e strappa un sorriso.

Con uno stile essenziale e diretto, Pasolini (produttore di “Full Monty”) sceglie la via della leggerezza e dell’affetto verso i suoi personaggi che varcano confini e sono fiduciosi nel futuro, anche se più una volta ammettono che “sarebbe bello poter stare bene a casa nostra”. Non è sempre possibile, purtroppo, e questa storia ci lascia con una nota d’amarezza: la squadra si sfalda, l’identità si frammenta e parte in cerca di nuovi ruoli da assumere e nuovi confini da superare. E spesso, anche senza sapere le regole, bisognerà giocarsela ugualmente.

A cura di Emma Onesti