L’odissea di una donna in un’America sempre più antiabortista

Mai raramente a volte sempre è un film fatto di silenzi. Gli stessi che ricevono le donne quando chiedono aiuto o rispetto. Autumn e Skylar – le giovani protagoniste di questo intenso viaggio – capiscono fin da subito che possono contare solo su loro stesse per far fronte agli ostacoli che la vita riserva. Uno di questi è una gravidanza inaspettata, forse l’incubo peggiore per una minorenne nell’America di Trump.

La regista Eliza Hittman mette in scena un dramma crudo e asciutto, quasi un documentario, sul tortuoso itinerario che una ragazza deve compiere per effettuare un aborto legalmente assistito. Nonostante l’operazione si effettui in un paio di giorni, il dispendio di tempo, denaro e soprattutto energie che si celano dietro di essa è notevole. Autumn passa per la piccola clinica del suo paese dove sbagliano a conteggiarle le settimane di gravidanza (un dato particolarmente importante quando si deve effettuare un aborto che deve essere eseguito entro i primi 3 mesi) e tentano di dissuaderla dall’opzione di abortire mostrandole un video dal feroce titolo: The hard truth. Affronta poi un estenuante viaggio dalla Pennsylvania fino allo stato di New York perché solo lì può terminare la sua gravidanza senza l’autorizzazione di un adulto. Finalmente nella clinica, Autumn riesce ad intravedere la luce in fondo al tunnel, ma ancora non sa che dovrà affrontare un ultimo difficile passaggio: il questionario sulla sua vita privata a cui dovrà rispondere con «mai, raramente, a volte, sempre».

L’aborto non è un problema morale, ma politico-economico. A dimostrarlo sono i fatti: nel lontano Medioevo il corpo delle donne era il corpo delle donne e non della medicina. Le prime leggi che vietano il ricorso all’aborto non risalgono infatti a quel periodo – al quale si fa spesso ricorso quando si criticano le scelte politiche attuali al grido di «Bentornati nel Medioevo» –, bensì all’epoca dei lumi quando il biopotere diventa strategia di governo della popolazione. Quando in Italia entra in vigore il “Codice Rocco”, si parlava dell’aborto come «un reato contro la stirpe, punito in nome del benessere demografico». Recentemente, il ribaltamento della storica sentenza “Roe v Wade” negli Stati Uniti, che elimina le tutele costituzionali sul diritto di aborto, è stato giustificato come un intervento volto a garantire le tutele dei minori, ma, di fatto, è solo una scusa per combattere il sempre più basso tasso di natalità delle popolazioni occidentali e le sempre più consistenti ondate migratorie. Secondo recenti studi sulle scelte delle donne eterosessuali tra i 18 e i 55 anni che dichiarano di non voler diventare madri, risulta che la maggior parte di loro ha un buon livello d’istruzione, redditi medi e un codice etico personale che include i valori dell’ecologia, dell’ambiente e della sostenibilità. L’elemento morale è solo una copertura per avere dalla propria parte la Chiesa e tutti i suoi seguaci e per impedire alle donne di scegliere cosa fare con il proprio corpo, in nome del prodotto che portano in grembo. Non a caso, uno degli slogan più gettonati delle associazioni pro-vita è: «Operiamo nel nome di chi non può parlare». Esso rimuove l’esistenza di donne capaci di parola e autogestione del corpo e si auto-delega alla rappresentanza di chi parola non ha perché non è neppure mai nato. Ai feti sono concessi dei super diritti molto superiori a quelli di chiunque altro. Incolpare le donne assolve i governi e gli altri organi competenti da costi extra, dal bonificare l’ambiente al combattere la povertà, al fornire cure sanitarie efficienti e prevenzione per tutti.

C’è tutto questo all’interno del lungometraggio di Eliza Hittman. La critica alle politiche americane che di fatto limitano la libertà della donna in nome di una morale cristiana e perbenista, la denuncia verso un sistema sanitario efficiente che esiste solo in certi Stati, mentre tutto il resto del paese è in balia di medici pro-vita e attivisti per i diritti del feto che confondono e terrorizzano le giovani donne ancor prima di vagliare le opzioni a loro disposizione. Anche se tutto il film è raccontato attraverso gli occhi delle due protagoniste, il male gaze è ben visibile. Le figure maschili sono poche ma tutte connotate negativamente: il patrigno di Autumn è un uomo violento che non fatica a definire le donne (compresa la sua figliastra) «facili»; il datore di lavoro del supermercato è un signore viscido che molesta le sue dipendenti perché si sente in una posizione di superiorità. Persino il ragazzo conosciuto sul bus – coetaneo delle protagoniste – elargisce favori solo se è sicuro di ricevere in cambio le attenzioni di almeno una delle due. Insomma, non solo una donna deve affrontare una vera e propria odissea per poter godere di un suo diritto, ma si trova a dover fare i conti con un mondo maschile che la giudica senza nemmeno conoscere la sua storia.

E voi, quante volte nella vostra vita vi siete sentite a disagio in una società patriarcale che pensa e agisce da uomo con la presunzione di dirvi cosa potete o non potete fare? Mai, raramente, a volte o sempre?

A cura di Gloria Sanzogni