Mediterraneo – Un cult fuori dal tempo
1941. Otto militari italiani sbarcano sull’isola greca di Mefisti col compito di presidiarla. Sono un gruppo di sbandati, di richiamati: Lorusso (Diego Abatantuono) ha combattuto nella Campagna d’Africa ed è diventato sergente; Colasanti (Ugo Conti) si occupa delle comunicazioni radio e vive nell’ombra del sergente; i fratelli Munaron (Memo Dini e Vasco Mirandola) non sono mai scesi dalla montagna e non sanno nuotare; Strazzabosco (Gigio Alberti) è un alpino che si è portato dietro Silvana, la sua amata asina; Noventa (Claudio Bisio) è un disertore che vuole solo tornare a casa dalla moglie; Antonio Farina (Giuseppe
Cederna) è al servizio del tenente Raffaele Montini (Claudio Bigagli), che ha dovuto lasciare il posto di professore di ginnasio per guidare la truppa.
Ognuno di loro è in fuga – consapevolmente o meno – e insieme intraprendono un viaggio che non si ferma con lo sbarco sull’isola greca di Mefisti, ma che prosegue anche durante la loro permanenza. Un viaggio in balìa delle onde, perché non sempre puoi essere padrone del tuo destino, «a volte si ubbidisce al destino e basta».
Quella che inizialmente sembrava un’isola deserta, infatti, si rivela essere viva e accogliente e i soldati, tagliati fuori dal mondo esterno, finiscono per immergersi nei paesaggi e nella cultura locale per riscoprire sé stessi. Anche le loro paure, come quella del nemico in agguato o quella di nuotare, vengono lavate via dai giochi, dagli amori e dalla spensieratezza.
Gabriele Salvatores – guidato dalla sceneggiatura di Enzo Monteleone – è un maestro nella caratterizzazione dei personaggi e lo dimostra nelle sequenze dove il gruppo è riunito, in cui mette in scena le interazioni migliori, molte delle quali sono diventate iconiche e fanno ormai parte della cultura popolare (in primis le battute di Abatantuono, qui in uno dei suoi ruoli migliori). Con le prime carrellate negli accampamenti il regista ci mostra le personalità e le diverse sensibilità dei personaggi, ognuno con le sue peculiarità, mentre più tardi, nella scena della pipa con il “fumo dell’oblio” di Aziz, mette in scena la riscoperta di loro stessi, il loro cambiamento. La consapevolezza che l’Italia ha voltato loro le spalle, li ha abbandonati, e che l’ideologia fascista è fallace e dannosa.
Anche la guerra che è in corso là fuori diventa fumosa. Mefisti è un luogo fuori dal tempo, tanto che nessuno si accorge degli anni che passano. Solo un pilota italiano che atterra sull’isola per caso può informare il gruppo sull’andamento del conflitto: gli alleati sono diventati nemici, e i nemici sono diventati alleati. Ma non solo, l’Italia adesso è divisa in due e c’è grande fermento, ci sono tante possibilità e «si possono fare anche un sacco di soldi». Quando finalmente una nave inglese li riporterà a casa, però, scopriranno che l’Italia non è il Paese pieno di opportunità che aveva dipinto il pilota.
Nel 1953 il critico cinematografico Renzo Renzi pubblica sulla rivista «Cinema Nuovo» un breve soggetto dal titolo L’armata S’Agapò. Il soggetto è per un film che avrebbe dovuto raccontare le gesta dei soldati italiani in Grecia, soprannominati “S’agapò” (“ti amo” in greco) per i loro rapporti con la popolazione locale. I militari italiani, però, nel periodo che va dalla fine del 1940 al 1943, non si limitarono a giocare a calcio sulla spiaggia o a provarci con le donne greche, ma furono anche autori di stragi e violenze. L’armata S’Agapò fu ritenuto lesivo dell’onore militare, e per la sua pubblicazione Renzo Renzi e Guido Aristarco (il direttore di «Cinema Nuovo») vennero accusati di vilipendio e condannati da un tribunale militare rispettivamente a sette e sei mesi di reclusione. Pena che, fortunatamente, non dovettero scontare per benefici di legge. Si tratta di un episodio gravissimo, specchio di un’Italia che nel Dopoguerra non è riuscita a ripulire gli organi statali dalle vecchie figure fasciste e che le parole di Lorusso nel finale riescono a inquadrare perfettamente: «Non ci hanno lasciato cambiare niente. E allora gli ho detto: “Avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice”. E sono venuto qui».
A cura di Dario Marchiani