Il cinema è mia madre

Due fratelli, Margherita e Giovanni (Margherita Buy e Nanni Moretti), devono affrontare la malattia della propria madre, un’insegnante di latino in pensione, ricoverata in ospedale. Margherita è una regista che sta girando un film sulla perdita del lavoro e dell’identità, mentre deve fare i conti con sé stessa e con il suo modo di trattare le persone intorno a lei. Il personaggio incarna la ricerca della vita oltre il cinema e intorno ad esso, gli imprevisti che ci riportano alla concretezza del reale: le bollette che non si trovano, la casa allagata, i compiti di latino, la malattia e infine la morte.

Mia madre è un film intimo e universale, costruito sulla dialettica tra due parti dell’io, quella dell’attore e quella del personaggio, che riflette sul fare cinema e sul non farlo. Non a caso anche i protagonisti si chiamano come i loro interpreti, in una costante enunciazione della messa in scena, che paradossalmente invita ad una partecipazione emotiva ancora più coinvolgente.

Un’altra questione centrale nell’economia della narrazione è quella linguistica che si snoda su più livelli: il latino che la madre di Moretti davvero insegnava a scuola e che invece la nipote fa fatica a comprendere, e la lingua italiana del film di Margherita che mette in difficoltà un attore e personaggio americano (John Turturro), lo stesso che dirà «Cinema is a shit job, I want to go back to reality».

La madre rappresenta le radici, il latino, da cui la nostra lingua proviene e si evolve; la comunicazione risulta però sempre impegnativa e confusa; vengono lasciate lacune narrative che enfatizzano la crisi del personaggio di Margherita, che non riesce a stare al passo col presente ed è incapace di affrontare i problemi della quotidianità. Il finale, sicuramente toccante ma non imprevedibile, è anche uno spiraglio di speranza: esiste un domani, un lascito, un dopo che arriverà ugualmente e che non possiamo fare a meno di aspettare e immaginare.

A cura di Emma Onesti