Mine vaganti: di che pasta sei fatto?
Una commedia familiare costruita su stereotipi in cui nessuno è davvero sé stesso; Mine vaganti di Özpetek (2010) racconta di una tradizionale famiglia leccese, proprietaria di un pastificio, che deve affrontare una tragedia: i due figli maschi sono entrambi omosessuali. Il bigottismo e il provincialismo sono però una barriera troppo grande e resistente perché questa notizia non desti scalpore e non stravolga tutte le dinamiche della casa.
La vicenda dei due fratelli viene al contempo intrecciata con il passato del personaggio della nonna, forse unica presenza positiva del film. La vera domanda per lei non è «chi sei davvero?» ma «sei felice?» e, forse per questo, permane un alone di mistero intorno alla sua figura fino all’overdose di dolciumi che ci fa pensare: non si è felici solo onorando chi si è davvero?
La regia tratteggia il ritratto di una famiglia che undici anni dopo ci appare ancora più disfunzionale e lontana dalla società contemporanea, ma che, letto come progressione della rappresentazione dell’omosessualità nel cinema italiano (attualmente in atto con film come Chiamami col tuo nome), compie enormi passi avanti. Özpetek, infatti, ha affrontato fin dalla sua opera prima Il bagno turco (1997) il tema in questione scardinandolo dai soliti canoni preimpostati. I suoi film raccontano spesso di famiglie che non sono quello che appaiono, costituite da personaggi contraddittori e molto umani.
In Mine vaganti i cliché e i preconcetti sull’omosessualità coesistono con la demolizione degli stessi: le figure di Antonio e Tommaso, i due fratelli, diventano espressione di una rivendicazione di genere a tutti gli effetti che però non sempre sembra funzionare. La comicità e la leggerezza prendono più volte il sopravvento e allontanano lo spettatore dagli spunti di riflessione proposti. Rimane in fondo uno spaccato socioculturale dell’Italia di qualche anno fa, che oggi si inserisce in un tipo di cinema popolare un po’ invecchiato. Il messaggio, però, è chiaro: «È più faticoso stare zitti, che dire quello che si pensa». Allora diciamolo.
A cura di Emma Onesti