Monica: identità di un corpo
Una cornice in 4:3 si apre su un volto in una cabina abbronzante; un viso illuminato che ci intriga dal primo istante: di lei, di Monica, non sapremo quasi niente durante tutto il film, ma diverrà parte della nostra famiglia.
La sua, di famiglia, che l’aveva esclusa e rifiutata anni prima, la ricontatta invece quando il cancro al cervello della madre diventa terminale, presentandola a quest’ultima, che non la riconosce, come una nuova badante. Assistiamo al graduale avvicinamento tra i corpi dei personaggi, attraverso silenzi e sguardi significativi.
I primi piani dell’attrice Trace Lysette sono come dipinti fiamminghi che indugiano su ogni linea del viso, sulle curve di un corpo sensuale e denso, che si muove e respira in uno spazio in cui viene da noi continuamente guardato. Percepiamo tutta la distanza tra passato e presente, il non detto tra Monica e una madre che non si riconosce più, che non è più autosufficiente e non ha mai voluto affrontare le problematiche familiari.
Il film è il terzo capitolo di una trilogia a cui Andrea Pallaoro ha dato inizio con Medeas (2013) e poi Hannah (2017), anch’essi presentati a Venezia. Monica, un altro nome femminile, un’altra età della donna, una nuova ricerca dell’individualità, rappresenta un ulteriore strato dell’identità: l’identità di genere. L’esperienza trans viene infatti raccontata con delicatezza e sensibilità, con un meccanismo di sottrazione i cui vuoti sono colmati dalla presenza fisica continua della protagonista: i riflessi di luce sui capelli rossi, la schiena e il collo tatuati, le mani nervose, le labbra rosse, la pelle tesa e abbronzata sono elementi onnipresenti in ogni inquadratura. Questa frammentazione contribuisce inoltre ad enfatizzare l’opposizione e la distanza tra la plasticità del corpo di Monica e la fragilità di quello di sua madre, due figure che si incontrano lentamente nel silenzio, a letto e nella vasca da bagno, avvicinandosi lentamente.
La regia lavora quindi su una distillazione della verità, che ridimensiona e nasconde il tema lgbt presentandoci un ritratto psicologico di una donna e della sua famiglia, affrontato con pudore privo di giudizio. Il ciclo si chiude con il nipote di Monica, Brody, che canta l’inno degli Stati Uniti ad un evento scolastico. Lei lo guarda, riconoscendosi in lui, riconoscendo sé stessa e il percorso iniziato quando aveva forse la sua età: ora è felice di essere dov’è, con l’America tutt’intorno, in cui finalmente ha un posto proprio.
A cura di Emma Onesti