More: la gioventù bruciata dalla dipendenza
Chi fuma o si fa di acidi vuole dare intensità alla vita; chi si fa di eroina, dalla vita vuole scapparci. «Gli hippy criticano i tossici, e i tossici criticano gli hippy che credono di aver scoperto il mondo», dice Estelle. Ma quale mondo rimane, nel baratro della dipendenza?
Estelle si fa di eroina. Non si buca più da un anno, dice, ma sul braccio le è rimasto il segno una vecchia infezione. Stefan la conosce ad una festa: lei americana, lui tedesco, finiti entrambi a Parigi senza un motivo apparente. Del passato di lui sappiamo poco; di quello di lei, ancora meno. Nella loro storia non c’è niente di romantico, sembra più un’attrazione casuale tra due particelle destinate a collidere. Estelle è un buco nero, Stefan è la massa che ne viene risucchiata fino a perdere la vita: con lei scopre le prime droghe, erba, oppio, anfetamine. Stando alla sceneggiatura avara di dettagli, sembra che Stefan non abbia la minima idea dell’esistenza di queste sostanze. Ma dell’eroina sì. L’eroina la conosce. Tutti la conoscono in quegli anni. La teme, molto, e quando viene a sapere del passato di Estelle non può che rimanerne scosso. Ma è il passato, e lei ora non si buca si più. O forse sì?
Il soggiorno parigino dura poco, un animo inquieto come quello di Estelle non può stare fermo a lungo. Se ne va ad Ibiza, «raggiungimi lì», dice a Stefan. E lui va, attratto da questo magnete mortale. È l’inizio di un tira e molla sentimentale, che fa uscire alla luce tutto il lato tossico di Estelle, che scappa ritorna fugge riappare ti amo ti odio vattene rimani non voglio vederti scappiamo insieme sono triste sto bene ti amo ti odio mi fai paura sei cattivo ti amo non mi buco più… non mi buco più. Era l’ultima volta, promesso. «Ne hai altra?», «l’altra metà», «dammela, la butto nel cesso». Non la butterà nel cesso.
La velocità con cui Stefan entra nella dipendenza è impressionante. Ma non c’è moralismo dietro la cinepresa: Schroeder non giudica, documenta. Riprende e racconta, senza paternalismi, una generazione allo sbando: la gioventù del ’68 fatta di sesso, droghe, nudità, esperienze. Nessun romanticismo, nessuna poetica della droga entra nella telecamera. Neanche quando Stefan raggiungerà la morte per overdose: una regia secca, asciutta, che lascia spazio solo alla più cruda registrazione degli eventi.
La sceneggiatura è debole, forse volutamente. I dialoghi sono spesso sconnessi, mancano di profondità psicologica, la storia d’amore di fatto non ha una storia. Si percepisce un grande disagio, in questo racconto della gioventù bruciata dalla dipendenza, ma non sappiamo a cosa sia dovuto. Di Estelle non sappiamo niente, di Stefan abbiamo solo un indizio: ha studiato matematica all’università, dopodiché ha sentito il bisogno di chiudere i ponti con la sua vecchia vita, e così si è messo in viaggio alla ricerca di nuove esperienze. Ma di traumi passati, di famiglie difficili, di problemi interiori, non sappiamo nulla. È evidente che i giovani che ci troviamo davanti cerchino di sfuggire da un qualche disagio esistenziale, ma il regista non ha nessuna intenzione di andare ad indagarlo. E forse, a pensarci bene, non serve nessuna profondità. Bastano i fatti a parlare, la rappresentazione cruda, asettica e fredda della più tragica dipendenza.
A cura di Margherita Ceci