Us: un capolavoro politico sul nostro tempo
«Migliaia di chilometri di tunnel percorrono gli Stati Uniti continentali… Linee della metro deserte, reti stradali inutilizzate e miniere abbandonate… molte delle quali senza alcuna utilità.» Con questa scritta extradiegetica, Jordan Peele apre il secondo lungometraggio della sua recente e dirompente carriera. Stacco su una televisione e scopriamo di trovarci nel 1986: vediamo occhi, bocche e una lunga striscia rossa che abbraccia gli Stati Uniti separandone il nord dal sud.
Il citazionismo e il gioco sul genere è chiaro sin dall’incipit: in un grande luna park di Santa Cruz, Adelaide guarda il padre vincere al tiro a segno e regalarle la maglietta di Thriller di Michael Jackson. Tensione nei dialoghi e pioggia nell’aria, la bambina si allontana e legge una scritta: Geremia 11,11. «Ecco, io faccio venir su di loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.» Inizia così la discesa, mentre compaiono i led di un’attrazione dimenticata su cui campeggia la scritta «Find yourself».
Se l’esordio Scappa – Get Out aveva raccontato attraverso il cinema di genere una metafora sul razzismo negli Stati Uniti e la drammatica segregazione della popolazione afroamericana da parte di quella bianca, ecco che Us complica il gioco di rimandi sin dalla scelta della famiglia protagonista. Tornando ai giorni nostri, vediamo infatti Adelaide con marito e figli andare in vacanza in una grande e lussuosa villa sul lago. L’incontro in spiaggia con la famiglia Tyler è un inno al consumismo, alle nuove divinità materiali che hanno trasformato la fede in ostentazione, la spiritualità in materialità.
«La bussola va impazzita all’avventura […]. Il calcolo dei dadi più non torna […]. Un filo s’addipana […]» scriveva Montale e in maniera non diversa una serie di eventi paradossali, sinistre coincidenze ci conducono al fatidico incontro tra Adelaide e… sé stessa. Noi è un titolo chiarissimo: chi sono i membri della famiglia che vediamo comparire nel vialetto della casa dei Wilson? «Sono noi». Un doppelgänger perfetto di ciascun cittadino americano. Non sorprenda quindi che tutta la simbologia del film ruoti intorno a questo: il passo di Geremia ripete due cifre identiche, così come le forbici sono un’arma, o per meglio dire uno strumento, perfettamente simmetrico.
La sequenza di apertura si chiudeva con lo stacco su un coniglio all’interno di una gabbia e la comparsa di rossi titoli di testa extradiegetici, allo stesso modo avvicinandoci al fatidico incontro non più nel mondo emerso, bensì in quello sommerso, un coniglio bianco è disegnato sulla porta all’interno del tunnel degli specchi (ulteriore elemento dalla chiara portata simbolica, assieme alla maschera del piccolo Jason). Il riferimento alla favola di Alice nel paese delle meraviglie diventa così piuttosto chiaro con un’evidente sovversione del concetto di «meraviglie», così come per altro era stato in Matrix. Il coniglio è anche uno degli animali maggiormente utilizzati come cavia da laboratorio e allora possono forse rappresentare la condizione degli «incatenati», degli uomini, donne e bambini del sottosuolo, liberi di uscire dalla propria prigione solo in concomitanza con la divina coincidentia oppositorum. Le lunghe gallerie illuminate che ospitano «loro» non sembrano essere inospitali o impervi, anzi la sensazione è quella di un’asetticità da laboratorio, di un luogo sicuro nato dal freddo calcolo.
È dunque evidente che la sofferenza dei doppi sia legata direttamente al comportamento di chi sta sopra e torna quindi centrale il passo da Geremia. Us è un titolo giocato evidentemente sull’ambivalenza tra il «Noi» reso dalla traduzione italiana e gli «United States», è un film cioè su «noi statunitensi», «sull’America» sembra dire Peele. Nel passo del profeta, il perdono e l’aiuto di Dio non possono più arrivare, è la punizione per la colpa di cui tutti, nessuno escluso, si è macchiato. Un’ipotesi interpretativa è che tale colpa sia l’asservimento a un sistema (quello consumistico-capitalista) che impedisca ai poveri di poter scegliere quale vita vivere, lasciando i ricchi liberi di vivere lontani, sia fisicamente sia moralmente. Le pene che devono soffrire «loro» sono privazioni parallele e contrarie dei privilegi di cui possiamo godere «noi».
Us ha così la forza di essere un’opera prepotentemente politica di critica della nostra società ed è al contempo il frutto diretto dell’opposizione culturale all’America trumpiana. C’è spazio però per un’ultima osservazione. Cosa salva Adelaide dal trauma? Il ballo, la musica, l’arte. La perfetta coordinazione in un movimento elegantissimo che trasforma il ricordo dell’infanzia in una danza per la sopravvivenza. «La bellezza salverà il mondo»? Lo speriamo, ma per ora basti il grande cinema per portarci a riflettere.
A cura di Andrea Valmori