Non essere cattivo: un accattone in più

Fellini. Pasolini. Monicelli. Cinema italiano anni ’60. Anche Trainspotting. Taxi Driver sicuramente. Questi sono i primi riferimenti culturali che balzano all’occhio guardando Non essere cattivo. Chiaramente non è altro che la punta dell’iceberg e non potrebbe essere altrimenti quando il regista è Claudio Caligari, autore di tre soli film, ma uno più profondo dell’altro. A licenziare un’opera impiegava più o meno quindici anni e si aveva la sensazione che sapesse troppe cose, che fosse toccato nel profondo da troppe realtà. E che non riuscisse a scegliere cosa rappresentare e cosa no. Era come Federico De Roberto, che, terminati I Viceré, si preparò a realizzare quello che secondo lui sarebbe stato il romanzo della sua vita, L’Imperio, ma che alla fine non arrivò a finirlo a causa della maniacale ossessione di migliorarlo. Anche Caligari rischiò di non terminare il suo Non essere cattivo. Morì pochi giorni dopo il termine del montaggio. Se ne andò, secondo alcuni, con il disincanto dei veri Romani, sussurrando: «Muoio come uno stronzo. E ho fatto solo due film». E invece, il terzo è arrivato.

Ostia, 1995. Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi) sono due perdigiorno provenienti dalle borgate romane, la cui vita si potrebbe riassumere con il titolo del recente documentario dedicato al regista Caligari: Se c’è un aldilà, sono fottuto (2019). Tutto il giorno al bar con gli amici, i due tirano avanti mettendo a segno qualche colpo: un furtarello di qua, un po’ di spaccio di là. Quando possono, si drogano anche loro. Sullo sfondo c’è il mare di Ostia, che attribuisce all’atmosfera la malinconia tipica di chi vorrebbe scappare, ma non può. Ci sono delle ragazze che gravitano intorno alla banda, tra le quali una inaspettata Emanuela Fanelli, che a dire la verità si fa fatica a prendere sul serio, dal momento che interpreta la tipica “burina” romana che poi ha tanto scimmiottato nella sua carriera da comica. A un certo punto, in questa vita senza arte né parte, che non sembrava dovesse regalare cambiamenti di sorta, Vittorio comprende, un po’ per necessità, un po’ per maturità, che non si può andare avanti così. Sempre fatti, sempre sballati. Senza un’entrata fissa, quasi senza una casa. Bisogna iniziare a lavorare. Ci prova Vittorio, ci prova. Tenta anche di convincere Cesare, ma il suo amico d’infanzia non ne vuole sapere. Ecco che avviene la crisi. I due non litigano, ma dal punto di vista narrativo è qui che cambia tutto. È qui che viene fuori Accattone. Il parallelismo tra i due protagonisti è quasi esplicito. Cesare non cambia. Non ne vuole sapere.

Ne è piena la storia del cinema di coppie che, evolvendosi uno e non l’altro, alla fine si separano. Basti pensare a Pulp Fiction, dove Jules analizza gli eventi che lo circondano e giunge al cambiamento più estremo: quello religioso. Invece, Vincent, tutte le volte che si trova in difficoltà, va in bagno, dove non a caso farà una brutta fine. Ma questo topos narrativo non viene ripreso casualmente: ritorna sempre perché è così che avviene nella vita. Caligari non si inventa storie. Riprende fedelmente le borgate. Come fece Pasolini, solo che questo le filmava negli anni ’60 e Caligari negli anni ’90. Ma, come accennato sopra, non è solo l’autore friulano a influenzare il regista. Taxi Driver di Scorsese è omaggiato da alcuni frammenti jazzistici nella colonna sonora. Amici Miei di Monicelli è ripreso nella scena in cui Vittorio chiede al figliastro di fargli leggere il tema scolastico che descrive la sua vita quotidiana.

Insomma, le opere di Caligari vanno ben oltre la semplice visione. Sono costruite su più strati: chiaramente si può, senza impegno, guardarle e comunque goderne, ma nella parte sottostante dell’iceberg c’è tanta conoscenza e tanta cultura cinematografica. Forse è questo che lo ha condannato alla sottovalutazione: bisogna essere veri amanti del cinema per comprenderlo. Non essere cattivo rappresenta l’inaccessibilità di pellicole come queste, che dal punto di vista qualitativo dovrebbero essere tra le prime scelte del cinema italiano, ma che invece rimangono negli abissi. Quando Caligari se ne andò, sciaguratamente prima di vedere il suo film finito, Mastandrea, che deve in parte la sua carriera a lui e che era produttore della pellicola, lo commemorò rivendicandone le qualità umane e artistiche. E un anno prima, nel 2014, scrisse una lettera aperta a Martin Scorsese per chiedergli sostegno nella produzione di Non essere cattivo. Tra le parole dell’attore, si legge: «Perché il Cinema di questo signore, Claudio Caligari, merita più di quanto è stato fino a oggi. E perché lo ripeto, quanto lo ama Claudio, il Cinema, forse neanche tu, Martino».

A cura di Alessandro Randi