La luce interiore di Notturno 

Tre lunghi anni trascorsi nel silenzio e nelle preghiere tra Iraq, Siria, Libano e Kurdistan per narrare la quotidianità di chi, in Medio Oriente, vive circondato dalla guerra. Un conflitto che si percepisce soltanto attraverso frammenti e brevi accenni per fare spazio a luoghi desolati e solitari, rappresentati quasi come delle fotografie. Questo clima di sospensione e attesa fuoriesce dagli schemi del documentario tradizionale prediligendo uno sguardo interiore, una riflessione individuale. Ciò che ci si aspetta da noi è l’atto del riempire l’interstizio con la nostra umanità in un confronto rivolto verso una nuova direzione.

Rosi si concentra su ciò che non si vede, ma esiste: un dramma che prosegue tutto intorno, nella memoria e nella mente di chi non è al fronte ma dietro di esso. Una donna lamenta la morte di suo figlio accarezzando le pareti scrostate di una prigione, un’altra osserva sua figlia rapita dai terroristi dell’ISIS attraverso uno schermo, la storia viene raccontata con i disegni dei bambini di una scuola e non vi è geografia, solo confine. I rari dialoghi, la staticità di alcune immagini e l’assenza di trama rendono questo film un cammino interiore verso un altrove che spesso non riusciamo a comprendere. Susan Sontag afferma nel suo saggio Davanti al dolore degli altri (2003) che le immagini di guerra dovrebbero suscitare un pensiero, risvegliare qualcosa nella nostra coscienza che ci ponga delle domande e ci guidi verso una diversa consapevolezza. Il fatto che molti abbiano definito l’operazione di Rosi una sorta di “estetizzazione” del dolore non esclude, tuttavia, questo altro aspetto. Contemplare, guardare un’immagine ben fatta non significa che essa non possa portarci a riflettere o ad indagarne la corrispondenza reale e documentaria. Svelando l’umanità, mettendoci in contatto con spazi immersi nel silenzio e raccolti quasi sempre poco prima dell’alba, la regia ci lascia il tempo di meditare un percorso mentale non fine a sé stesso.

Notturno cerca una luce introspettiva e intima, nello sguardo dello spettatore che si pone sui limiti e sui confini dell’immagine, del documentario, delle zone di guerra. Che poi si vada oltre o si resti dietro di essi è una scelta soggettiva che chi guarda compie mettendo o non mettendo in primo piano l’umanità e la propria consapevolezza. E ciò avviene grazie alle immagini.

A cura di Emma Onesti