Old Boy: tra verità e vendetta

Una finestrella posta in una posizione degradante da cui riceve ogni giorno un piatto di ravioli fritti è l’unico sfogo della stanza entro cui è imprigionato Dae-Su, «colui che si diverte e va d’accordo con tutti». Non sappiamo per quale motivo l’uomo si trovi costretto a trascorrere quindici anni della sua esistenza in un ambiente squallido e claustrofobico, la cui monotonia è interrotta dai programmi trasmessi da una televisione sempre accesa. Né sappiamo perché, dopo un lasso di tempo così lungo, Dae-Su venga liberato da Woo-Jin, lo stesso persecutore che l’aveva imprigionato senza un apparente motivo.

Il tormento inflitto a Dae-Su prosegue senza requie. Nulla è peggio di essere puniti per qualcosa di cui non si è consapevoli. Già durante la reclusione, a voler espiare il proprio senso di colpa, l’uomo aveva redatto una «autobiografia» delle proprie cattive azioni, ed ora, dopo essere stato contattato dal suo aguzzino, continua a interrogarsi sul perché di questi avvenimenti. Ecco che allora inizia un’inchiesta che ha come fine identificare ed eliminare il proprio persecutore. Ad accompagnarlo in questa operazione è Mi-Do, giovane ragazza conosciuta subito dopo aver ritrovato la libertà e che sembra configurarsi come il simbolo della dimensione morale, perduta da Dae-Su a conclusione della prigionia.

L’uomo è consapevole del proprio imbruttimento etico: «Neanche oggi vado d’accordo con gli altri. Sono diventato un mostro». La tortura messa in atto da Woo-Jin lo ha condotto a un livello sub-umano. Le conquiste della cultura giuridica greca, che aveva posto fine alla società della vendetta (tema dell’omonima trilogia del regista), sembrano venire meno nell’ottica di Dae-Su: il suo unico scopo è annientare il suo tormentatore, fare scempio del suo corpo e mangiarne i pezzi (suggestione dal sapore mitico, verrebbe da dire). Quando però se lo ritroverà davanti per la prima volta, il desiderio di scoprire la verità sembra vincere quello animalesco di vendicarsi. Forse luccica ancora un barlume di razionalità dentro il suo animo distrutto.

La ricerca spasmodica della causa prima, dopo un percorso fatto di violenze crude e brutali, si risolverà con la scoperta che la colpa di Dae-Su risale alla sua adolescenza, quando aveva messo in giro la voce di un rapporto tra Woo-Jin e sua sorella Soo-Ah. In un gioco sadico in cui il contrappasso, sapientemente centellinato lungo tutta la pellicola, ha avuto un suo ruolo centrale, Dae-Su era stato portato, complice l’ipnosi, ad avere un amplesso incestuoso con una donna di cui ignorava l’identità.

Il tema dell’incesto si lega così inscindibilmente a quello della colpa e della punizione. Le due coppie di personaggi, su cui si basa l’intreccio del film dalle suggestioni edipiche, si muovono lungo traiettorie parallele con esiti differenti. La sorella e il fratello, colpevoli in quanto consci della loro relazione incestuosa, trovano entrambi la morte. Soo-Ah si era suicidata anni fa, Woo-Jin, invece, si spara un colpo alle tempie, non prima però di aver concluso la propria vendetta: Dae-Su, ormai completamente degradato a una dimensione bestiale, portando all’estremo le modalità del contrappasso, si taglia la lingua davanti al proprio carnefice, la stessa lingua con cui all’epoca aveva messo in giro le voci dell’incesto.

ATTENZIONE SPOILER

Allo stesso tempo, l’altra coppia, macchiatasi di una relazione incestuosa ma inconsapevole, ha la possibilità di continuare la propria vita: il padre Dae-Su grazie all’oblio concesso da una nuova seduta di ipnosi, la figlia Mi-Do – adesso possiamo dirvelo – ignara della vera identità dell’uomo di cui è innamorata. Entrambi condurranno però un’esistenza monca, in cui la verità, che Dae-Su aveva cercato maniacalmente con l’aiuto della ragazza, si annulla nella dimenticanza o nell’incoscienza.

A cura di Mattia Rizzi