Primo amore: anche i pazzi possono amare
Nel 1997 uscì nelle librerie un romanzo intitolato Il cacciatore di anoressiche. Il titolo tutt’altro che rassicurante, lo diventa ancora meno quando si scopre che si tratta di un’opera autobiografica. Infatti, Marco Mariolini, di professione antiquario, decise di raccontare la sua parafilia, cioè la sua ossessione per le donne anoressiche e scheletriche. Sposato prima con tale Lucia, che pesava trentatrè chili, un numero spaventoso, tanto da rendere superfluo il dato dell’altezza, al divorzio la sua ossessione si radicalizzò. Utilizzando un sito di incontri, uscì, poco tempo dopo con Monica Calò (nascosta nel libro dietro lo pseudonimo di Barbara). Quella che incominciò fu una storia d’amore completamente malata e maniacale, dove Mariolini esercitava un vero e proprio controllo sulla donna, prendendo per lei tutte le decisioni e razionandole il cibo. L’autore ha infatti raccontato: ‹‹Volevo il controllo totale su Barbara, come se fosse stata parte di me, una mia protesi. L’avrei portata alla morte certa per denutrizione, non importandomi più niente di nulla compresa la mia stessa vita. Lei mi dava quell’illusione di completezza, sia nel corpo che nella mente, tanto mi sentivo fuso con lei e nello stesso tempo regista onnipotente della situazione››.
Sette anni dopo, nel 2004, uscì al cinema Primo amore, lungometraggio di Matteo Garrone, liberamente ispirato da Il cacciatore di anoressiche. I protagonisti erano Michela Cescon e Vitaliano Trevisan, quest’ultimo importante drammaturgo e scrittore che ricoprì i panni di attore-sceneggiatore. Il film si apre proprio con l’incontro tra i due: questa donna dalle fattezze assolutamente normali e quest’uomo dallo sguardo torvo e inquietante; la calvizie di un Voldemort ante litteram e il naso lungo e dritto. Come se non bastasse, il dialogo tra i due parte subito male: le prime parole che escono dalla bocca di Vittorio (Trevisan) sono: ‹‹Ti immaginavo più magra››. Tuttavia, inspiegabilmente, Sonia rimane affascinata da quell’uomo cupo e misterioso. Non sa di aver appena preso la decisione peggiore della sua vita. Infatti, Vittorio è in analisi per la sua ossessione, che sa di avere e prova a curare senza successo. Il suo lavoro è umile: è un orafo a capo di un laboratorio composto da altri due lavoratori. Il business va avanti, senza infamia e senza lode. Tuttavia, man mano che l’ossessione per Sonia cresce, il lavoro passa in secondo piano, portandolo a prendere decisioni sempre più sconsiderate, fino a dover chiudere bottega.
Nel frattempo, Sonia si mostra sempre più presa dal rapporto, dal fascino oscuro di quest’uomo, che la guarda con gli occhi freddi di chi ha passato tutta la vita a cercare di comprenderne il significato, ma è rimasto sempre a bocca asciutta. Effettivamente, il modo in cui Vittorio entra, quasi bussando, nella psiche di Sonia è alla fin fine il motivo del suo “successo”. Non è brusco, almeno all’inizio. La inganna, è subdolo, ma proprio così riesce a inculcare in Sonia il desiderio di dimagrire. La donna inizia una dieta che ha effetti immediati: infatti, la sua perdita di peso è istantanea e le sue energie non le stanno dietro. Vittorio si fa una presenza sempre più ingombrante nella sua mente: vuole vederla magra, più magra, più scheletrica. E Sonia si fa trascinare: dai quasi sessanta chili iniziali, si arriva ai quaranta chili finali.
Le immagini sono crude e autentiche, prive di effetti speciali anche grazie allo straordinario lavoro di Michela Cescon, che per il film decide di dimagrire quindici chili seguendo una dieta. Questo modus operandi è in realtà una novità per il cinema italiano. Infatti, la concezione di trasformare il proprio corpo a seconda del personaggio da interpretare fa parte della tradizione attoriale americana; sicuramente non europea. In ogni caso, eccoci lì: ad un finale quasi thriller, con scene che, se entrasse una persona in stanza mentre state guardando il film, penserebbe sicuramente ad un film sulla Shoah. Sonia è debole, nuda e scheletrica in una stanza buia e claustrofobica. Davanti a lei si para questo uomo, vestito di nero, che effettivamente potrebbe sembrare un nazista che incute timore alle sue vittime. È lo scontro finale, che mostra cosa può compiere un essere umano una volta privato della propria dignità.
Il sentimento dello spettatore è questo, una volta terminato il film: se Primo amore fosse stato straniero, in Italia lo avrebbero visto e idolatrato tutti. Ma essendo stata girata in un ambiente molto provinciale, tant’è che gli attori enfatizzano il loro accento veneto, l’opera è passata in sordina, dimenticata, anzi, quasi mai ricordata.
A cura di Alessandro Randi