Sangue da vendere, talento nelle vene
Un musicista indaga su una serie di delitti che colpiscono Roma per riuscire a trovare il killer. Basta questo. La sinossi è l’ultimo dei problemi per chi si avvicina a Profondo rosso. Il film non solo presenta una banalissima intelaiatura da “giallo all’italiana” già vista nella Trilogia degli animali, ma è più in generale costellato da una moltitudine di errori di scrittura uno più grossolano dell’altro: dialoghi che scadono in siparietti incoerenti con l’atmosfera del film, azioni sconsiderate e poco probabili da parte dei protagonisti, talvolta espedienti di trama molto deboli. Apparentemente quello appena descritto è il più classico degli horror blockbuster con tanto di Jumpscare a cui, soprattutto in questi anni, siamo abituati. Quelli di Argento sono spesso film di mero intrattenimento, senza pretese, e anzi pronti a “scendere” al livello dello spettatore medio, favorendo uno spettacolo il più semplice possibile. A quel punto chi è in sala o davanti al televisore non deve fare altro che abbassare la guardia, lasciar fare il regista e farsi fregare.
Nonostante il suo film più riconosciuto a livello internazionale sia Suspiria (1977), gran parte degli spettatori italiani che ha visto il vero Argento al cinema si ricorda sempre di Profondo rosso, che era uscito solo due anni prima. Nel 1975 il regista romano coglie il pubblico in controtempo e di sorpresa, innovando ciò che aveva già creato uno spartiacque nel 1970 ne L’uccello dalle piume di cristallo, consacrazione del giallo nostrano. Profondo rosso porta in scena il thriller della Trilogia degli animali, unendolo ad una vena orrorifica che caratterizzerà in maniera più consapevole i successivi horror paranormali a partire proprio da Suspiria.
Ciò che differenzia Argento dai registi del passato e del presente è una destabilizzazione visiva essenziale dello spettatore: la risoluzione dell’enigma si compone e si disfa nel giro di pochi secondi, celandosi in piena vista, lasciando una sensazione di dubbio, disagio e impotenza. Le figure misteriose del capolavoro di Dario Argento si nascondono in specchi opachi o poco visibili, dal vetro del bagno nell’incipit, alla pozza di sangue del finale. Proprio il sangue è per la prima volta co-protagonista, nelle vesti di aiutante di un killer come al solito “troppo” vicino allo spettatore – cortesia delle soggettive e delle istantanee al dettaglio – ma soprattutto pericolosamente più vicino al protagonista.
Il puro aspetto horror in realtà non contraddice le premesse sulla scrittura, che anzi offrono uno spunto di riflessione interessante. La trascuratezza della forma, intesa come coesione interna, mette solo più in risalto la natura grezza ma cristallina della sostanza: quella di Argento è una visione e soprattutto una regia del brivido personale ma allo stesso tempo semplice e universale. La naturalezza lo ha sempre contraddistinto, nel bene e nel male. Se negli anni ‘70 e ‘80 era effettivamente il next big thing, successore spirituale di Bava – a cui comunque deve tantissimo sia in termini di regia che di ispirazione –, a partire dagli anni 2000 il talento puro non gli è più bastato. L’Argento recente è “orrorificamente” perfetto ma sempre più rifugiato nelle atmosfere e convenzioni di un tempo, che seppur concettualmente funzionali, stonano in un presente che giustamente non riesce a farle sue, o meglio, le ha già metabolizzate. In questo senso ormai la sostanza non riesce più a compensare la forma. Dario è rimasto un Peter Pan sanguinario che a volte torna a visitare i ragazzi del presente, chiedendogli di accompagnarlo nella sua Isola che non c’è dove tanti anni prima aveva terrorizzato i loro genitori.
A cura di Alessandro Cricca