Rififi: la decostruzione della figura del ladro gentiluomo
Quando Rififi e Rapina a mano armata uscirono nelle sale a poco più di un anno di distanza, in pochi capirono che stava nascendo un genere destinato alla ribalta; Jules Dassin, appena cacciato da Hollywood, si dovette trasferire in Francia, dove accettò di dirigere un film a basso costo tratto da un romanzo sulla malavita. Sotto il nome di Du rififi chez les hommes, questo sarebbe passato alla storia come un capostipite del polar francese, nonostante il budget ridotto e il cast tutt’altro che stellare, con lo stesso Dassin a interpretare il ruolo di Cesare “il marsigliese”. L’heist movie, il cinema del “colpo grosso”, ha quindi una data di nascita ufficiale: il 14 aprile 1955.
La trama è semplice: Tony, detto “il laureato”, esce di prigione. Scarcerato per buona condotta, si abbandona subito al gioco d’azzardo. L’amico Jo, dopo averlo ringraziato per non aver confessato la sua complicità, gli propone un colpo alla famosa gioielleria parigina Mappin’ & Webb. Nonostante qualche iniziale titubanza, Tony accetta, e la squadra si forma: lui, Jo, il loro amico Mario e Cesare “il marsigliese”, esperto scassinatore. Il film si concentra sulla preparazione dell’audace furto, rappresentato in una scena di quasi mezz’ora, stracolma di tensione e mancante, al contrario, di musica o voci. Conclusasi la rapina, i criminali devono occuparsi delle conseguenze, prima fra tutte il fatto che un criminale della zona, tale Pierre Gruterre, rivale in amore di Tony, sappia della loro colpevolezza e voglia ricattarli.
Riguardandolo oggi, si rimane sorpresi per molte ragioni, prima fra tutte la modernità della messa in scena. Tutti o quasi gli stilemi del genere sono bene in mostra in Rififi: la costruzione della tensione, la preparazione del colpo, la banda un po’ improvvisata con un leader carismatico come Tony. Questo incarna perfettamente la figura del ladro gentiluomo, ma anche quella del ladro intelligente, dotato sia di un piano che di un rigido codice morale. Rifacendosi tanto ad Arsenio Lupin quanto a Fantômas, Dassin dà vita ad un personaggio stereotipico all’apparenza, ma ben costruito e sfaccettato. Il regista, nonché sceneggiatore, si spinge addirittura oltre: per quanto questa figura (a cui, a oggi, ci si può riferire proprio col nome di Rififi) fosse ancora nuova al tempo, quantomeno per il cinema, Dassin la decostruisce, la smonta, la mette completamente a nudo davanti allo spettatore con una memorabile scena all’interno del cabaret del già citato Gruterre. Qui, la stessa Magali Noël, che qualche anno più tardi interpreterà Fanny ne La dolce vita, si esibisce in una performance canora. Il brano dà il titolo, nonché la chiave di lettura, all’intero film: Rififi, appunto.
Rififi «non è una parola comune, non si trova sul dizionario», canta la Noël. È un’attività che allontana l’uomo da casa, dalla sua famiglia, dalla sua ragazza; seppur sia un uomo intelligente, a suo modo amorevole, si lascia prendere da questo “rififi”, la rissa, la lotta, il crimine. Lo possiamo vedere fin dall’inizio del film, in cui tutti i personaggi sono mostrati nella loro quotidianità non come uomini malvagi, ma come padri amorevoli, mariti affettuosi e zii presenti. Il ladro gentiluomo non è cattivo, ma non resiste al brivido dell’illegalità, e ciò chiaramente impatta come appare agli occhi dei famigliari e degli amici.
Significativo è ciò che Jo si sente dire dalla moglie, mentre Gruterre gli chiede un riscatto per la vita di suo figlio: «Perché te sei diventato un bandito, un forte, e gli altri no? Lo sai cosa penso? Sono gli altri i forti». Jo rimane incredulo davanti alle parole della moglie, non le risponde. Ad aiutare l’interpretazione giunge in aiuto un’altra scena significativa, avvenuta poco prima, ossia quella del rapimento del figlio di Jo. Il bambino viene messo in una macchina e lascia andare il palloncino che aveva in mano. La telecamera lo segue mentre sparisce nel cielo. Da un autobus, un padre redarguisce il figlio: «Vedi cosa capita quando non si sta attenti?». Ed è forse questa l’idea fondamentale che sta dietro alla pellicola: la criminalità, e più in generale il male, è sempre in agguato, e bisogna stare attenti.
Tuttavia, questo principio sembra non valere per Tony, l’esemplare ladro gentiluomo, il quale sembra attratto, come una falena dalla luce, dal fascino del furto, della rapina: non fa in tempo ad uscire di prigione che è già immischiato in un nuovo colpo. Insomma, mentre per la maggior parte delle persone basta la cautela, altri non possono combattere la loro natura, e così il ladro gentiluomo, quello che un minuto prima uccide il proprio amico perché «sono le regole» e un minuto dopo si premura di comprare un giocattolo al nipote, non può fuggire il proprio destino.
A cura di Francesco Colombo