Quale altro?

Quale può essere l’ultima occasione per Richie Lenz, un manager decaduto – e forse mai decollato – ad un passo dal fallimento definitivo? Levinson se la immagina così: un tour in Afghanistan con l’ultima cliente. Il viaggio parte in modo disastroso: un aereo di ultima classe sovraffollato, un benvenuto sotto le bombe. La sua star non regge e, dopo avergli rubato soldi e documenti, scappa a Dubai lasciandolo solo e disarmato. È così dunque che Richie è costretto ad arrangiarsi: trovare un modo per tornare indietro, dei soldi per sopravvivere e un tetto sotto cui stare. In questa mission sarà aiutato da un taxista appassionato alla cultura degli Stati Uniti e da una prostituta che vive in una roulotte: una compagnia improbabile ma fedele.

Sin dalle premesse, questa pellicola provoca la nostra coscienza e gli stereotipi di cui, volenti o nolenti, è pieno il nostro immaginario. Ad esempio, il titolo del film, tratto da una battuta di Richie nelle prime sequenze della pellicola, è decisamente indicativo: la Kasbah non ha nulla a che fare con l’Afghanistan, bensì è un elemento che, come gli fa notare sua figlia, appartiene alla tradizione del nord Africa. Se in un primo momento la scena può suscitare il riso, poco dopo viene da chiedersi in quanti di noi spettatori sapessero effettivamente che la Kasbah non fa parte della cultura afghana: la risposta potrebbe essere scomoda nell’era dell’all-inclusive. Perché viene da pensare che ciò che è diverso da noi alla fine sia tutto uguale; che non ci siano sfumature, che per noi occidentali ciò che non è “nostro” sia solamente “non-nostro”: in che senso e per quali ragioni, non ci interessa più di tanto.

E allora ci sono i militari americani “buoni” che proteggono i civili; i militari afghani che sparano senza senso, parlano una lingua incomprensibile a noi occidentali, odiano Broadway; gli occidentali che sanno solo parlare; i trafficanti di armi che agiscono per il “bene”; le donne afghane velate e proprietà del padre o del marito contrapposte alla prostituta americana buona e libera dagli schemi del Paese; il militare americano apparentemente senza pietà ma con la passione per la scrittura. Quanti stereotipi? Quanti luoghi comuni?

Forse il regista, rappresentandoli tutti sul grande schermo in maniera quasi irreale – sono tutti personaggi costruiti palesemente su un modello, non su una personalità – vuole mandare un messaggio in un modo nuovo: ci mostra esattamente quello che ci aspettiamo di vedere, in una narrazione chiaramente parziale ed esterna di un mondo che nella cultura occidentale è considerato un’unica cosa, non degna di approfondimento, solo altro da noi, solo diverso. Ma tutte queste aspettative incredibilmente soddisfatte alla fine potrebbero lasciarci un interrogativo: quale altro è nascosto nel diverso che ci viene incontro?

A cura di Agnese Graziani