Rushmore: la comfort zone delle certezze
Per Max Fischer, un quindicenne brillante, la Rushmore è tutto. Pur non eccellendo nelle discipline scolastiche, trova all’interno dell’istituto uno spazio per esprimere sé stesso e la sua genialità attraverso club extrascolastici e opere teatrali scritte di suo pugno.
La Rushmore è il punto fermo di Max, il suo posto felice, perché sa che all’interno di quella scuola troverà sempre il modo di dar sfogo alla sua genialità ed è attorno a questo che costruisce la sua realtà: tutto il resto è sospeso, fuori dalla sua vita, pragmaticamente inesistente. Dunque, è qui che deve sorgere la domanda: cos’è davvero la Rushmore per Max? Un luogo nel quale è felice, perché sicuro di sé stesso. Il problema sorge però dal fatto che è un luogo limitato, ha confini ben precisi, il rischio non esiste e così Max Fischer può rimanere sempre staticamente sé stesso. Per quanto continuamente in cerca di nuovi stimoli, non c’è mai un reale passo avanti o indietro. Fino a quando Max è alla Rushmore essa resta la sua comfort zone, un luogo dove ha trovato la sua dimensione e dalla quale non intende andare oltre. Non si parla dunque di un vero e proprio amore per la scuola, quanto più di una ricerca e un bisogno di certezze. Non è un caso quindi che solo l’amore vero e folle per la signorina Cross, senza che lui se ne accorga, riuscirà a svegliarlo da questo torpore e lo porterà a venir espulso dalla Rushmore.
Ogni personaggio in questo film ha la sua Rushmore. Per Herman Blume è la relazione con la signorina Cross, come dice lui stesso durante il litigio con Max. Blume è un uomo ricco, ma sostanzialmente insoddisfatto della propria vita: due figli che non stima, una moglie che non ama più. Nell’amore, o presunto tale, la signorina Cross trova una certezza, una scappatoia dall’infelicità. Ma quella che sembrava una relazione all’apparenza semplice, corrisposta, piena, diventa solo un sogno infranto ed è lei stessa a lasciarlo non appena la questione diventa più seria. Blume, quindi, è costretto a piombare nuovamente nella sua disprezzata vita, costretto ora a doverla affrontare sul serio. La Rushmore della signorina Cross è il marito defunto. Definire comfort un lutto può sembrare azzardato, ma l’uomo che lei ha tanto amato è inequivocabilmente una certezza. Rifugiarsi nei ricordi dell’amore vissuto con lui è doloroso, ma comunque sicuro: lei lo ha amato e restano solo i bei ricordi, ricordi che non cambieranno, qualunque cosa accada. Il marito è un rifugio nel quale ripararsi mentre gli eventi della sua vita, che continua imperterrita ad avanzare, le stanno urlando di andare oltre, di superare il momento.
Entro la fine del film tutti i nostri personaggi riusciranno, in un modo o nell’altro, a uscire dalla loro comfort zone. Per Max una tappa fondamentale è il momento in cui, riappacificatosi con Blume, gli presenterà il padre per la persona che realmente è ovvero un semplice barbiere, non il neurochirurgo che aveva fatto credere che fosse. Con questo gesto si riappacificherà non solo con Blume, ma anche con sé stesso e con le sue radici,fino a raggiungere piano piano una maturità nuova che trova la sua massima espressione nell’opera teatrale conclusiva: un vero successo che, non a caso, andrà in scena alla pubblica Groover, segnando il suo distacco definitivo dalla Rushmore. Anche il signor Blume trarrà grande vantaggio dalla pace fatta con Max: grazie a lui, infatti, si metterà nuovamente in gioco con la signorina Cross, cercando però un nuovo approccio, più sincero, più deciso, più maturo, arrivando a costruire finalmente l’acquario a lei dedicato, simbolo del passo avanti rispetto alla sua vecchia vita, inizio di un percorso che lo spingerà oltre. Anche per lui il culmine arriva in occasione dello spettacolo di Max, durante il quale riuscirà a lasciarsi alle spalle definitivamente la vecchia versione di sé stesso. Per la signorina Cross prendere le distanze dalla sua comfort zone è più difficile: il suo percorso sarà segnato dalla storia con Blume, primo amore dopo il marito, ma anche e soprattutto dalla conversazione con il suo giovane amico Max, intrufolatosi a casa sua con una scusa. Come per i due casi precedenti, vediamo l’apice del suo cambiamento nella sequenza finale (lo spettacolo è dedicato anche a suo marito) e non è un caso che Wes Anderson scelga di passare in rassegna i personaggi con un’unica lunga carrellata capace di tenere assieme tutti riappacificando gli uni con gli altri.
E in fondo, per concludere, chi di noi può dire di non essersi mai rifugiato nella propria Rushmore? Questo film, mostra come sia possibile, aiutati dai nostri amici, lasciarsela alle spalle.
A cura di Agnese Graziani