Tarkovskij e gli ultimi spettri
Alexander (Erland Josephson), un attore in pensione, sta festeggiando il suo compleanno con amici e parenti, quando assistono al terribile annuncio in Tv: un attacco nucleare disintegrerà la terra. Sarà forse la fine dell’umanità, o meglio la fine dell’uomo, quell’uomo che continua a fare i conti con la propria vita, tra incubi, tra azione e pensiero, intento ad ottemperare al dovere della paternità, arduo compito che deve far germogliare frutti maturi.
Nell’incipit Alexander pianta un albero secco e spoglio con suo figlio come ultimo gesto paterno, la consegna di un compito, di un dono, di un motivo per cui vivere, come se gli stesse consegnando il senso stesso della vita. Sembra che Alexander veda questo triste albero avvizzito come un’opera rigorosa e già compiuta, a tal punto da dire: “Bello no? Come un Ikebana giapponese?”. L’ikebana (significa letteralmente “fiore vivente”) è l’arte orientale basata su composizione floreali, inizialmente nata a scopo religioso e mantenuta nel tempo come un’espressione artistica. E qui in merito alla fede, al tema religioso, di carne al fuoco ne abbiamo tanta. La fede fa paura! La religione incute timore, e come dargli torto. Chi non è mai rimasto impressionato di fronte a un dipinto religioso, non soltanto per la sua bellezza pittorica, bensì per il contenuto macabro espresso dallo stesso? La religione è un fenomeno che induce lo spirito al tormento, poiché spinge l’uomo verso le domande ultime che ne provocano, quindi, un’angoscia esistenziale. Infatti, i titoli di testa mostrano il dipinto de L’adorazione dei magi di Leonardo Da Vinci da cui traspare immenso fascino e, al contempo, restituisce una sensazione gravemente angosciosa.
Definito come il film testamentario di Tarkovskij (afflitto da una lunga malattia), su un uomo che, come tutti, indugia prima della morte, tra dubbi esistenziali, rimorsi, peccati e affossato da quella paura dello spirito di cadere nel vuoto eterno. Questo sentimento di morte provoca uno stato di allucinatoria pazzia – rappresentato da sequenze oniriche impressionanti – che spingerà Alexander ad offrirsi in sacrificio davanti a Dio, rinunciando a tutti i suoi averi e ai suoi affetti, pur di salvare l’umanità. Inquadrature fisse a piani sequenza fanno da padroni alla scena, infatti, Tarkovskij usa appositamente un’impostazione molto teatrale ma carica di tensione emotiva, proprio per il desiderio di omaggiare un maestro dei Kammerspiel come Ingmar Bergman. Sacrificio viene girato aGotland, un’isola del Baltico, in Svezia, location molto cara a Bergman, presente anche sul set con l’amico Tarkovskij per supportarlo in questo suo ultimo film, a cui ha partecipato anche lo storico direttore della fotografia Sven Nykvist che ancora non si smentisce, per l’evidente capacità di conferire una potenza travolgente delle immagini, attraverso la luce, sia nelle scene in bianco e nero che a colori: una fotografia stilisticamente perfetta che alimenta il contenuto del film, una luce in grado di evidenziare i sussulti dell’anima. La casa in fiamme nel finale è un sublime esempio della capacità registica mastodontica di Tarkovskij.
Il finale è l’esplosione di tutto l’amore di un padre che dona la vita grazie al suo sacrificio: il figlio di Alexander, sdraiato sotto l’albero fiorito, finalmente proferisce parola guardando verso l’alto; ed ancora ritorna l’idea dell’albero come rappresentazione della vita, un dono ricevuto, che spetta noi far fiorire, innaffiandolo tutti i giorni con costanza e dedizione. È un’opera intellettuale densa di citazioni culturali di spessore – da i discorsi esistenziali tratti da Nietzsche al teatro di Čechov – dove è presente anche il principe Myskin, personaggio de L’idiota di Dostoevskij (Alexander lo interpretò in un suo spettacolo teatrale), la storia di un uomo profondamente buono che soffre di epilessia il quale si innamora di una donna che fugge con l’uomo che la domina e la maltratta brutalmente, fino ad arrivare al terribile omicidio. Un personaggio che Dostoevskij scrisse pensando proprio a una figura salvifica che incarnasse l’idea di un uomo simile a Cristo. Non a caso, al centro del romanzo dello scrittore russo c’è un dipinto religioso che i personaggi osservano con sgomento e stupore: Il corpo di Cristo morto nella tomba di Hans Holbein del 1521. Un Cristo pelle e ossa che esprime tutta la sua debolezza umana in un corpo caduco e anoressico (lo stesso romanzo viene letto dal personaggio insonne e magrissimo de L’uomo senza sonno – The Machinist di Brad Anderson del 2004, interpretato dall’impressionante Christian Bale).
In conclusione, Tarkovskij ci lascia con un’enorme riflessione sull’uomo in rapporto con l’arte stessa, sulla sua matrice catartica che provoca in Alexander confusione tra attore e personaggio: l’arte come caos votato a confonderci ma anche l’arte come l’unica forma possibile attraverso cui imprimere la traccia della nostra esistenza.
A cura di Matteo Malaisi