Shorta: il percorso palindromico di due sguardi
Non sappiamo molto della Danimarca contemporanea e Shorta non concede spazio a indugi. Prima di George Floyd, il “non respiro” del giovane Talib innesca la rivolta indignata del ghetto di Svalegården. Nonostante il tema sembri ricondurre a I miserabili di Ladj Ly o a L’odio di Kassovitz, lo sguardo di Ølholm e Hviid si posa altrove, sui protagonisti Jens e Mike.
Un inizio in medias res ci fa piombare a bordo di una pattuglia di polizia nella giungla urbana della metropoli danese. È il day after, è l’inizio di una guerra senza nemico. Jens e Mike vengono accoppiati perché antitetici: se il primo è esile, silenzioso e riflessivo, il collega è scurrile, impulsivo e soprattutto incurante dell’altro. Entrambi però erano presenti nella notte in cui Talib veniva pestato ed entrambi sono chiamati ora a prender posizione. Mike cerca lo scontro, cerca un bersaglio e lo trova in Amos (Tarek Zayat). Ma allo scoppio delle prime rappresaglie, gli agenti si trovano in territorio ostile, nel quartiere di Svalegården, e il loro destino è ormai indissolubilmente legato a quello del ragazzo.
A scendere in campo non sono tuttavia la polizia e le giovani generazioni di immigrati, bensì i protagonisti e il loro punto di vista. La prima sequenza del film mostra due grandi pupille disegnate da una bambina sul cemento: le prospettive antitetiche di Jens e Mike entrano continuamente in collisione, fino a un’inversione palindromica ardita ma narrativamente coerente. In un primo momento Jens evita in tutti i modi il confronto con Mike, ma all’interno del supermercato lo scontro verbale diventa inevitabile e la posizione della macchina da presa li mostra separati, intrappolati in gabbie geometriche disegnate dai frigoriferi retrostanti. La fuga, le speranze di salvezza e la cieca volontà di punire Amos portano Jens allo scontro fisico risolutivo con Mike: siamo a metà del film.
Gli sguardi dei due personaggi da questo momento è come se si capovolgessero. Mike perde letteralmente la vista durante lo scontro e non è casuale che ritrovi la luce conoscendo la famiglia di Amos. Tra le mura domestiche, Mike e Abia si trovano nuovamente inquadrati entro i perimetri rigidi di due porte, separati da un muro apparentemente invalicabile. Il movimento verso la terza porta, quella di uscita, avviene però in contemporanea in un incontro-scontro che simboleggia visivamente l’inizio del nuovo percorso per l’agente.
Jens, al contrario, inizia a vacillare proprio nel momento in cui perde la fede nuziale che lo lega alla moglie. Assieme ad Amos cerca di uscire dal quartiere-labirinto, finendo però con una pistola puntata alla tempia. Se Mike aveva avvisato il collega sulla sensazione di impotenza di quella situazione, la reazione successiva e istintiva di Jens segna il punto conclusivo dell’arco di trasformazione dei due personaggi. Al termine di questo viaggio su binari paralleli e contrapposti, Mike è ancora sicuro delle proprie posizioni e difende le buone intenzioni del collega, Jens invece si perde definitivamente decidendo di andare incontro al cruento destino che crede di meritare.
Ølholm e Hviid iniziano e chiudono in maniera rapida, ritmata e soprattutto coerente. La loro proposta di cinema è più vicina agli States che non alla compagine francese, ma non per questo Shorta risulta più debole nell’invito a riflettere sulle drammatiche tensioni dell’Europa contemporanea.
A cura di Andrea Valmori