Skinamarink: il caro vecchio buio

Partire dalla sinossi per analizzare Skinamarink sarebbe quanto meno anacronistico. In primis perché effettivamente riconoscere una trama non sarebbe cosa scontata, ma soprattutto per il fatto che l’indefinitezza che aleggia attorno alla storia “narrata” dal film è parte del fascino della pellicola. Una pellicola affascinante sì, certamente non un capolavoro, ma in grado utilizzare con intelligenza ciò che il regista ha a disposizione, in maniera essenziale e contemporaneamente approfondita.

Bisogna partire col dire che il film, il primo del regista, sia di fatto una riproposizione di un precedente lavoro: in questo caso Heck, mediometraggio datato 2020. Skinamarink riprende da Heck quasi tutto: la situazione, i personaggi, l’ambientazione, l’approccio visivo e le atmosfere. I due inoltre condividono una pluralità ulteriore di fonti. Sul versante cinematografico vengono subito in mente le svariate saghe a tema paranormale e in stile mockumentary: i vari Paranormal Activity, ESP, REC, e molti altri. Il riferimento filmico più evidente è senza dubbio Babadook, cult horror del 2014, da cui il film di Ball attinge per molte aspetti: certamente i protagonisti, il tipo di storia e scenario.

Ma i riferimenti – volontari o meno – non si limitano solo al cinema. Skinamarink è in un certo senso definibile “pop”, dal momento che in molti aspetti l’approccio registico è figlio di una visione del brivido vicina a prodotti mediatici e videoludici di alto consumo: è quasi scontato parlare di Five Nights at Freddy’s, che il film ricorda per gli spostamenti dell’inquadratura e per alcuni movimenti di camera che ricalcano quelli di un dispositivo di videosorveglianza, senza dimenticare la tecnica di frammentazione temporale presente in Heck. Forse un po’ più audace è fare riferimento a The Binding of Isaac, nonostante molti aspetti del videogioco si assimilino bene alla pellicola di Bell, ad esempio nell’uso di giocattoli e altri oggetti come filtro della relazione familiare.

Ma cos’ha Skinamarink in più di Heck? Essenzialmente una maggiore consapevolezza dei propri mezzi, che poi non sono molti. È chiaro che siano due produzioni a bassissimo budget; un “esperimento” da pubblicare sul web. Ma dove la prima versione si fermava ad una visione frammentaria degli oggetti inquadrati, in maniera suggestiva ma forse troppo puntuale, il film definitivo prende maggiormente le distanze dai propri soggetti. Skinamarink agisce in una zona grigia delle inquadrature, che attraverso il buio e la finta grana delle immagini valorizzano al massimo l’inquietante profondità delle zone d’ombra. Per un’ora e quaranta minuti il regista ci proietta nella nostra infanzia, quando tutti noi, nell’oscurità delle nostre camere, vedevamo il nulla avanzare minaccioso e innocui attaccapanni o sedie antropomorfizzarsi tra un battito di palpebre e l’altro.

Ciò non toglie che a tratti la pellicola assomigli più ad un tentativo di ottenere il massimo con il minimo indispensabile. Nonostante la finta grana dell’immagine riesca a creare inquietudine, il filtro usato per le riprese non ha una vera e propria giustificazione, tanto più quando la tecnica con cui viene costruita l’inquadratura continua a cambiare creando non poca confusione: finta-soggettiva, poi soggettiva effettiva e molto spesso inquadratura impersonale. I movimenti di macchina evidenziano la stessa eterogeneità: quasi sempre c’è una camera fissa, ma a volte sembra che assuma i connotati di una macchina a mano oppure di una videocamera di sorveglianza attaccata alle pareti. Quale indecisione anche nell’uso dei jumpscare, forse presi in causa per tenere sul pezzo gli spettatori meno concentrati, anche se si tratta di un inserimento controcorrente al clima di placida angoscia che il film sembra voler generare.

Nonostante ciò, Skinamarink è un esperimento ben riuscito e mette in luce gli enormi margini di miglioramento del regista. La visione sul grande schermo ha inoltre aggiunto un atipico effetto di straniamento, per un prodotto che – come già detto – sembra più adatto ad una fruizione sul web: fortunato chi è riuscito a vederlo in sala al NOAM Film Festival di Faenza.

A cura di Alessandro Cricca