Se tutti fossimo come John May probabilmente il mondo sarebbe un posto migliore

«Il film è un film sulla vita, sul valore della vita degli altri, sull’importanza di essere coinvolti nella via degli altri, sull’importanza di aprire la propria vita, la nostra vita, agli altri» ha detto Pasolini in un’intervista. Probabilmente nessun’altra descrizione sarebbe più appropriata ed esaustiva di quella che lo stesso regista offre, ma forse è possibile riassumere queste righe con una parola: empatiaStill Life è infatti un film sull’importanza dell’empatia e su come essa riempia la nostra vita con qualcosa di puro e immateriale, facendoci dimenticare per una volta di non essere soli in questo mondo.

Still life è un’espressione inglese che significa «natura morta» ed è proprio così che potremmo descrivere la vita di John May: già morta ancora prima di essere realmente vissutaMay è un impiegato comunale che vive le sue giornate avvolto da una nuvola di rigore e abitualità. La fotografia grigia che talvolta raggiunge i toni dell’asettico e la macchina da presa che si muove tanto lentamente quanto la vita del protagonista ci permettono di cogliere ogni dettaglio della sua vita, un po’ come se fossimo seduti su una panchina e ammirassimo in silenzio i passanti di una città. John May è un uomo buono, ma è anche profondamente solo, e il regista fa emergere questa condizione di solitudine attraverso i quadri Il viandante sul mare di nebbia (Friedrich) e L’assenzio (Degas). Anche i pasti che il protagonista consuma denotando la sua solitudine: una mela, un pesce appena pescato, un pasticcio di carne e una scatoletta di tonno; nello schermo non sembra esserci posto per troppi elementi insieme, e, idealmente, per più cuori che battono. Come il viandante nel dipinto di Friedrich, May è immerso nella solitudine in modo che niente e nessuno possa disturbare la quiete che lo circonda, forse non rendendosi veramente conto della sua situazione. May è un uomo solo, ma non è estraniato: la sua lentezza, pacatezza e benevolenza arrivano dritti nel cuore dello spettatore che, commosso, riesce a creare un legame emotivo con il protagonista.

La precisione e la cura che il nostro protagonista pone nel suo lavoro non sono però apprezzate dalla società della superficialità, che, con grande indifferenza, priva May dell’unica cosa che riempie le sue giornate: il lavoro. Forse però proprio grazie al licenziamento egli scopre che esiste «ancora una vita» da poter vivere (altro traducente dell’espressione still life). Di quanto la vita sia preziosa, John May è ben consapevole; ma lui, che per anni non ha fatto altro che ricostruire in rispettoso silenzio l’identità di molti, omaggiando volti e storie che oramai erano stati dimenticati ancora prima della loro fine terrena, forse non ha mai vissuto veramente la sua vita. Probabilmente egli ha sempre cercato di riempire la sua esistenza occupandosi di quella degli altri; passava ore a cercare qualsiasi informazione che potesse essere utile a dare dignità a quelle vite ormai spezzate e facendo in modo che non fossero sole almeno durante l’ultimo commiato. Dopo il licenziamento, però, egli scopre che forse l’unica vita cui non ha ancora reso omaggio è proprio la sua. E così May parte, ricerca, muta, sperimenta, in una parola vive. Lo schermo quindi si riempie, i colori si fanno piano piano largo sulla scena e l’empatia del signor May entra nel cuore di altri protagonisti.

In un’intervista Pasolini racconta di quanto sia potente ed efficace adottare una tecnica di ripresa lenta, che sia così in grado di cogliere particolari e sensazioni della vita di tutti i giorni, perché è solo così che può rimanere nella mente dello spettatore. Ma quest’opera rimane impressa anche grazie alla fantastica interpretazione di Eddie Marsan, attore che quando recita non pensa mai al sé come attore quanto più al personaggio che rappresenta, una sorta di «attore-non attore». In questo film Eddie Marsan è proprio questo; è un uomo qualsiasi, buono, con lo sguardo velato da una certa malinconia e solo, ma da un punto di vista puramente fisico, non spirituale, perché la vita gli ha deciso di donare un bene prezioso, ossia l’empatia.

A cura di Sofia Quadrelli