The Beast: coincidenze tra piani paralleli
Capita raramente di trovarsi davanti a un film-mondo, a una di quelle opere capaci di racchiudere tutto. L’ultima impresadi Bertrand Bonello rientra a pieno titolo in questa categoria, in un’operazione dall’equilibrio superbo, da un’attenzione al particolare (le singole inquadrature) e al generale (l’impianto complessivo del film) che fa gridare al capolavoro.
Poco meno di due ore e mezza per raccontare una storia d’amore eterna, lungo i secoli e le distanze: dalla Parigi dei Lumi alla Los Angeles contemporanea, per approdare oltre. The Beast è un’operazione ambiziosa che porta con sé la scelta di mescolare molti generi tra loro (fantascienza, film in costume, thriller, horror), pur restando uniti sotto l’egida dalla linea sentimentale, che sparisce e poi riaffiora, simmetrica e antitetica alla dimensione dell’incubo.
Bonello apre con il personaggio di Léa Seydoux all’interno di uno studio completamente tappezzato dal verde del green screen. Sentiamo le indicazioni del regista che le spiega cosa dovrà fare, come dovrà comportarsi e spaventarsi in vista dell’arrivo de “la Bestia”. Quest’ultima aleggia per tutto il film come uno spettro, lasciando aperta la porta a diverse interpretazioni. Se da un lato infatti è chiaramente riconoscibile la figura di un animale che torna in maniera ricorrente, dall’altro è sicuramente possibile sovrapporre l’epiteto a uno dei due personaggi.
La storia d’amore che si perpetua lungo il tempo, arriva a un punto di svolta solo nel presente di narrazione, che è il 2044. In una città dai confini non definiti, la protagonista cerca lavoro e nel farlo è costretta a sottoporsi a un test-cura per domare i propri sentimenti sempre più irrequieti.
La presenza di Seydoux, unita alle scelte estetiche di messa in scena per la realizzazione di interni ed esterni, riesce a costruire uno spazio urbano credibile e sospeso tra Cronenberg e Villeneuve (il film per altro è una coproduzione tra Francia e Canada). Parlando di suggestioni, impossibile non citare David Lynch che viene omaggiato più o meno esplicitamente (i tendaggi rossi, le apparizioni premonitrici, il playback), ma che è certamente presentissimo per atmosfere e momenti di maggior acme sul fronte del esoterismo.
Il paragone forse più lusinghiero e per certi versi spiazzante può però andare anche a Stanley Kubrick. Bonello decide infatti, sulle tracce della filmografia del regista statunitense, di andare dal film in costume all’horror. L’opera è certamente distante dall’idea di cinema di Kubrick e tuttavia la presenza insistita di un barman più volte presente tra silenzi e intensi sguardi non poteva che rimandare a quello iconico dell’Overlook Hotel. Anche la costruzione dell’immagine d’altra parte guarda agli esempi più alti del contemporaneo, cercando di collocarsi sempre più in terreni ibridi ed incerti e avviandosi come stile ad alcune soluzioni adottate ad esempio dall’ultimo Jordan Peele.
The Beast ha però anche un epilogo e la scelta non poteva che essere ancora una volta stupefacente. Bonello prende le redini di regia e musiche e trova tra i produttori esecutivi l’aiuto dell’ormai ritirato Xavier Dolan. Così come il più giovane collega era stato attento all’innovazione sul campo formale (utilizzando il formato cinematografico a fini diegetici), così l’opera non si chiude come da prassi con i titoli di coda, bensì lasciando campeggiare un QR code. Il risultato si colloca a metà tra l’irriverenza di non potere utilizzare i dispositivi in un luogo come la sala e la sacrosanta decisione di abbracciare il contemporaneo strizzando l’occhio al nuovo spettatore, indolente nell’abbracciare il progresso a maggior ragione se comodo oltre che inedito.
A cura di Andrea Valmori