E se non fosse solo retorica?
Prendere una famiglia americana bianca, repubblicana, benestante, affiatata. Aggiungere un ragazzo emarginato, solo, grande e grosso, con un passato pesante sulle spalle, un istinto protettivo fuori dal normale e uno spropositato talento per il football. Condire il tutto con una colonna sonora dolce ma non troppo, moderata, mai eccessiva, con i toni giusti al momento giusto. Si otterrà così il classico american dream.
Il film racconta la storia vera di Michael Oher, un ragazzo che ha una madre dipendente da droghe e un padre scomparso, che cresce da solo nella parte malfamata di Memphis, finché un giorno viene presentato da un amico a una prestigiosa scuola della città. Viene ammesso, ma fatica ad integrarsi fino all’incontro con la signora Thuy, una Sandra Bullock da Oscar, e la sua famiglia, che deciderà di adottarlo. Di qui comincia la sua ascesa sportiva, scolastica e sociale che tra alti e bassi, ci porterà al fiabesco e vissero tutti felici e contenti. Insomma, questo film, a primo impatto, per quanto piacevole da guardare, potrebbe sembrare una presentazione retorica della buona famiglia americana che agisce secondo giustizia. Guardando più a fondo, però, osservando i dettagli e facendo propria la storia, la domanda sorge immediatamente: e se questo film non fosse solo retorica?
Il dubbio nasce principalmente da due sequenze. La prima arriva a metà del film, nel momento in cui la signora Thuy si reca dalla madre di Michael per conoscere meglio la sua storia e per chiederle di poter adottare suo figlio. Si consuma in questa occasione un confronto, a tratti straziante, tra la madre biologica, che non c’è mai stata, e la madre adottiva, che in così poco tempo è riuscita a dare a Michael tutto ciò che, probabilmente, sua madre non sarebbe riuscita a dargli in una vita intera. La sequenza è significativa perché evidenzia chiaramente lo scontro tra le volontà e le possibilità di una donna che diventa madre, tra l’agio e il degrado delle due situazioni opposte. Infatti, ciò che le due donne hanno in comune, oltre all’amore per Michael, è il dolore: l’una nel riconoscersi inadatta a svolgere il ruolo di madre, l’altra nel sentirsi ladra di un figlio non biologicamente suo. Il dialogo, poi, non si risolve in modo chiaro, tutt’altro. Questa pellicola dunque, lascia allo spettatore, in modo assolutamente non retorico, un interrogativo cruciale: che cosa significa essere madre?
La seconda sequenza, vera punta di diamante del film, è quella che ci sveglia da qualsiasi torpore retorico. Siamo nelle sequenze conclusive, una serie di immagini accompagna la voce di Sandra Bullock che riassume in pochi secondi la storia di un altro ragazzo afroamericano, cresciuto insieme a Michael, talentuoso negli sport proprio come lui, ma che a differenza sua non è riuscito ad emergere dalla periferia ed è rimasto ucciso durante una sparatoria in una lotta di quartiere. Una fine tragica, una giovane vita sprecata: “Quel ragazzo poteva essere chiunque, poteva essere Michael. Ma non è stato così”, commenta il personaggio di Sandra Bullock. Raccontandoci questa storia in appendice, Hancock ci ricorda che Michael Oher è un’eccezione: solitamente, i ragazzi delle periferie non trovano infatti una famiglia benestante che li accolga, finendo a giocare a football a livello nazionale, al contrario, da quella periferia non si muovono e spesso è proprio l’ambiente stesso a ucciderli. Il regista sceglie quindi di mostrarci come sia crudele la vita con alcuni, come agisca senza pietà verso chi non può difendersi. Poi però finisce dicendo, semplicemente, che per Michael Oher non è stato così. Facciamo nostro quel non è stato così. È come se ci stesse chiedendo, per un attimo, di smettere di pensare a cosa c’è di brutto, perché questo è sfortunatamente sotto gli occhi di tutti, e di concentrarsi invece su Michael Oher, ogni tanto, sul suo essere eccezione, sul fatto che per lui non è stato così.
A cura di Agnese Graziani