The Integrity of Joseph Chambers: la consapevolezza di Joseph Chambers
Joseph Chambers (Clayne Crowford) è un assicuratore e vive in tranquillità sulle montagne con la moglie Tess (Jordana Brewster) e i due figli. Sicuro di dover dimostrare il proprio valore di uomo americano, si improvvisa cacciatore, addentrandosi nei boschi con l’attrezzatura del vicino di casa, ma privo di ogni esperienza. Il film gioca particolarmente sulla semplicità delle inquadrature, che ne risaltano l’essenzialità del messaggio ma allo stesso tempo rendono incredibilmente divisivo l’approccio all’analisi del film: o lo si ama o lo si odia.
Al netto della preferenza personale, il film ha un elemento affascinante: riesce ad unire magistralmente tempo del racconto e tempo della storia. Originariamente questi due aspetti della narrazione appartengono alla letteratura, e indicano la dicotomia tra il tempo che serve a leggere un evento e il suo “reale” svolgimento. È indubbio che il cinema abbia avvicinato sempre di più i due aspetti, tanto da renderli quasi complementari, in virtù della sua natura audiovisiva. Ciò nonostante una traccia dell’originaria distanza permane pur sempre nella narrazione cinematografica, ad esempio nel montaggio. In Joseph Chambers assistiamo invece ad una dilatazione estrema dei tempi, tanto che sembra di vivere la totalità della giornata di caccia al fianco del protagonista.
Si tratta di un effetto a volte scontato ma incredibilmente difficile da ottenere in maniera “pulita”. Nel film ciò è il risultato di una narrazione minimalista che concentra il suo svolgimento in una manciata di sequenze, spremute fino all’osso e completamente spogliate dal dinamismo dei movimenti di macchina, del montaggio e della musica. Camera fissa e il suono della natura, nulla di più.
Il succo del racconto è facilmente intuibile alla sola lettura della sinossi: il regista si prende gioco di una sorta di complesso del superuomo americano. Joseph è inspiegabilmente spinto ad affermarsi come figura forte e rassicurante con la famiglia; virile e impavido con i suoi “simili” – ad esempio col vicino Doug (Carl Kennedy) – , legittimandosi con l’uso della forza. Nulla di più lontano dalla sua persona. Il breve viaggio del protagonista lo porta inevitabilmente a compromettere la propria integrità, mettendo a nudo questo mito americano e rivelandosi per quello che è veramente, o meglio ciò che è sempre stato. Lo sguardo finale all’amico poliziotto (Jeffrey Dean Morgan) rivela, anche se irrimediabilmente tardi, la consapevolezza sulla sua natura.
Ma la forma come veicola la sostanza? La tematica del film è stata affrontata innumerevoli volte, dal cinema e non solo, perciò da questo punto di vista non risulta innovativa. Particolare è invece l’approccio della regia, che in modo funzionale usa la visione minimalista come cassa di risonanza per mediare in maniera più diretta possibile la sua critica. Proprio la funzionalità, assieme al concetto di consapevolezza, rende interessante il dibattito sulla percezione dell’opera e sull’analisi dei film in generale.
Questa pellicola mette in scena l’annosa diatriba tra giudizio soggettivo ed oggettivo. Joseph Chambers rientra nella cerchia di film che hanno bisogno di entrambe le visioni per poter essere apprezzato – oppure odiato – ma certamente capito. Da una parte è assecondabile il pensiero di chi possa bollare l’opera come “già vista”, dal momento che si tratterebbe di una declinazione solo formale (l’approccio minimalista) di una tematica già affrontata, e che la funzionalità nel dare risonanza ad una banalità sia quanto meno paradossale. Dall’altro è condivisibile l’opinione di chi sostiene come la semplicità della messa in scena sgrezzi totalmente la materia e proietti chiaramente e con potenza il messaggio davanti agli occhi dello spettatore.
L’opinabilità regna sovrana quando i giudizi soggettivi devono rendere conto alla consapevolezza artistica. La scelta di lavorare per sottrazione, risaltando la solitudine del personaggio e allo stesso tempo la breve distanza che lo frappone allo spettatore, non ostacolato da montaggio o musica, è soppesata e ha una sua logica. In questo senso non può essere smentita o messa in discussione. Che il regista abbia cercato di esprimere con la totale assenza di filtri il suo messaggio è altrettanto indubbio: apprezzabile o meno è una scelta artistica, fondata e non negoziabile. La natura concreta dell’opera – e alla fine dello stesso personaggio – è proprio la consapevolezza nelle proprie idee. È da a questo affascinante nucleo oggettivo che gli spettatori di The Integrity of Joseph Chambers, proiettato al NOAM Film Festival di Faenza, sono dovuti partire per decidere se amare la potenza visiva, oppure odiare la banalità espressiva, dell’ultima opera di Robert Machoian.
A cura di Alessandro Cricca