The Mauritanian: fantasmi a stelle e strisce 

Al tramonto un uomo cammina a piedi nudi su una spiaggia, mentre appaiono in primo piano barche variopinte e si alzano progressivamente suoni di tamburi. «Mauritania, novembre 2001, due mesi dopo l’11 settembre». È così che Kevin MacDonald decide di presentarci Mohamedou Ould Slahi (Tahar Rahim): una persona spensierata che vive felicemente con la propria famiglia. Sono gli attimi antecedenti al dramma, momenti di canti, balli e visite inaspettate. L’uomo saluta la madre con il sorriso e le rivolge un ultimo sguardo attraverso lo specchietto retrovisore, dallo stesso punto di vista scorgiamo subito dopo gli occhi dell’avvocatessa Nancy Hollander (Jodie Foster).

Ci siamo spostati negli Stati Uniti ed è il febbraio del 2005, Mohamedou è detenuto nella prigione di Guantanamo da quattro anni in quanto persona collegata a Bin Laden, senza tuttavia essere mai stato formalmente accusato. La Hollander si interessa al caso dopo aver notato incongruenze troppo evidenti da poter passare inosservate e decide così di prendere le difese del «presunto reclutatore dell’11 settembre». Il caso appare spinoso, ma non riesce a comprendere come il governo statunitense possa aver violato per settecento prigionieri trattenuti a Cuba l’habeas corpus, ovvero il principio che tutela l’inviolabilità personale, una delle colonne portanti del diritto anglosassone. Sul fronte opposto siede però un avversario altrettanto determinato, il tenente colonnello Stuart Couch (Benedict Cumberbatch), desideroso di trovare giustizia per la morte dei colleghi rimasti uccisi durante gli attacchi.

Dopo l’eccellente lavoro su documentari come One Day in September e Touching the Void, MacDonald decide di raccontare nuovamente una storia realmente accaduta nell’unica maniera in cui questa volta era possibile farlo e cioè attraverso un impianto realista e una puntuale attinenza alle fonti. La denuncia delle violenze che si sono protratte lungo quattordici anni di detenzione arriva direttamente dalla vittima che, con un libro di memorie (Guantanamo Diary, 2015), ha trovato il coraggio di consegnare alla pagina scritta il racconto di fatti al limite del credibile.

Come Xavier Dolan, Wes Anderson e altri grandi cineasti d’oltreoceano, il regista ricorre al cambio di formato per proporre qualcosa di nuovo, sia sul fronte visivo che emozionale. Grazie infatti all’incalzante doppio filo su cui si muove la narrazione, dalle vicende giudiziarie ai ricordi scritti sulle lettere alla Hollander, il formato cambia e stringendosi porta lo spettatore a vivere con il protagonista il ricordo dei settanta lunghi giorni di tortura. Efficaci effetti distorsivi sono ottenuti attraverso suono e luce, cercando di riprodurre in maniera mimetica il dramma vissuto da Slahi, in cui i ripetuti abusi sessuali e le diverse forme di violenza psicologica sono solo alcuni dei tasselli che compongono un quadro realmente allarmante.

La Mauritania dell’incipit e dell’explicit appare come il luogo della libertà, la casa in cui ritrovare la vita, di contro alla paradisiaca Guantanamo che ossimoricamente si trasforma in un inferno di bugie e depistaggi. Con audacia MacDonald racconta i settecento di Guantanamo attraverso Slahi, denunciando alcune delle più gravi ingiustizie perpetrate dal governo statunitense in anni recenti. Un cast in stato di grazia consente al film di inserirsi con forza e coerenza entro il filone di battaglie giudiziarie che, negli ultimi anni, sono passate dalla cronaca statunitense al grande schermo (nel 2020 Richard Jewell e Il processo ai Chicago 7) e che ci consentono di osservare la crescente sfiducia verso le istituzioni di una nazione in evidente crisi identitaria.

A cura di Andrea Valmori