La voce del popolo
A partire dal disastro del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, durante la quale più di un migliaio di lavoratori sottopagati sono morti, schiacciati dalle rovine del palazzo, The True Cost (2015) si propone di mostrare al mondo il lato oscuro e nascosto del “fast fashion”: una modalità di capitalismo sfrenato che porta alcuni dei marchi più noti della moda a realizzare profitti stellari sfruttando un capitale umano e ambientale che potrebbe risultare tragico.
Vi è una presenza, evidente all’inizio ma che, con il passare dei minuti, sembra mimetizzarsi: è quella del regista Andrew Morgan. Egli ammette immediatamente che il suo livello di preparazione all’inizio dell’inchiesta fosse basso, basato su alcune convinzioni che nel corso del tempo sono cambiate drammaticamente. Questa scelta, come altre all’interno del film, ha uno scopo ben preciso, cercare di dialogare con un’ampia quantità di spettatori che, proprio per la sua numerosità, risulterà avere una scarsa preparazione in materia.
Ecco che la scelta di “abbassarsi” al livello dello spettatore medio porta i suoi frutti. Esso si sente in qualche maniera legittimato a scoprire così tanto dell’industria del “fast fashion”, in così poco tempo e con così pochi sforzi. Questo però soltanto perché l’inchiesta del regista, coadiuvato dai suoi produttori, tocca soltanto la punta dell’iceberg di un problema ormai così radicato nell’economia globale da essere praticamente inestirpabile.
Non gli si può certo imputare di non aver mostrato tutte le ramificazioni dell’industria osservata. Vari settori hanno dovuto adattarsi alla crescita vertiginosa della domanda di capi d’abbigliamento, ad un costo relativamente basso: le fabbriche nei paesi in via di sviluppo (Bangladesh, India, Cambogia e Cina) costringono la manodopera a lavorare per salari bassissimi e in condizioni pericolose; lo sfruttamento intensivo delle piantagioni di cotone costringe i contadini ad utilizzare semi geneticamente modificati, la quale hanno bisogno di essere trattati con diversi pesticidi che stanno rovinando irrimediabilmente il terreno.
Come se non bastasse, l’immensa quantità di vestiti prodotti porta l’industria dell’abbigliamento ad essere la seconda più inquinante al mondo e a rovinare l’economia interna di alcuni paesi (come Tahiti) che, ritrovandosi tonnellate di vestiti donati dai paesi occidentali, non si sviluppano una propria economia interna ma rimangono relegati nella parte più bassa della catena produttiva.
Andrew Morgan non risparmia neanche il settore pubblicitario, reo di aver convinto la società occidentale di avere bisogno di beni del tutto secondari o, in alternativa, che essi possano alleviare le difficoltà di vivere in una società dove i beni primari mantengono invece un costo elevato.
Il pregio di riuscire a impressionare e coinvolgere è però, contemporaneamente, il suo difetto. Concluso il film, lo spettatore si sente abbandonato. La sua rinnovata volontà di avere un impatto sul mondo in cui vive, nel cambiare la tragica situazione, si scontra con le parole di altri intervistati che, implicitamente, sostengono che il sistema non può essere modificato in maniera sostanziale da noi consumatori ma che deve essere regolamentato dalla classe politica o da alcuni imprenditori particolarmente attenti alle condizioni dei lavoratori e del pianeta.
A cura di Enrico Nicolosi