This Must Be the Place: la solitudine edificante di Paolo Sorrentino 

Paolo Sorrentino dà forma e dirige un personaggio magnifico come quello di Cheyenne (Sean Penn), una rock star in auge negli anni ’80, con il trucco sugli occhi e il rossetto sulle labbra, i capelli voluminosi e disordinati, e che sfoggia vestiti dark fin dai tempi in cui si esibiva sul palcoscenico. Trascorre le sue giornate nella sua grande villa di Dublino insieme alla moglie Jane (Frances McDormand) e all’amica Mary (Eve Hewson). Qualcosa, però, sembra scricchiolare nella vita di quest’essere vaneggiante, dubbioso, apatico che cammina come se fosse stanco di trascinare il peso del suo corpo (o il peso della sua anima?); scambia la noia con la depressione, la sua voce è fiacca, debole, monotona. Siamo così sicuri che questo personaggio sia stata una stella del rock in passato? Come faceva a cantare ardentemente se ora la sua voce risulta così incolore?

La vita dell’ex rock-star prende una piega diversa quando viene a sapere che suo padre, con cui non parla da quasi trent’anni poiché «non gli voleva bene», sta per morire. È costretto a recarsi a New York, ma quando arriva in città, il suo vecchio è già morto. Veniamo quindi a conoscenza dell’origine ebraica di Cheyenne, del quale non sembra essere rimasta traccia; una traccia che suo padre, invece, porterà con sé per l’eternità: il marchio del numero identificativo ricevuto ad Auschwitz.

Inoltre, il padre stava facendo una ricerca su Aloise Lange (Heinz Lieven), ufficiale nazista che lo aveva umiliato nel periodo di prigionia nei campi di concentramento. A questo punto, Cheyenne decide di proseguire le indagini cominciando un profondo road trip negli Stati Uniti, durante il quale farà numerosi incontri che cambieranno per sempre il suo modo di affrontare la vita. L’America selvaggia diventa il pretesto per approfondire quel senso di infelicità e solitudine che logora l’anima del protagonista: i paesaggi desolati, silenziosi, sconfinati diventano una chiara metafora del vuoto di un’esistenza che spetta a noi riempire.

«Ho il sospetto che la tristezza sia poco compatibile con la tristezza» sostiene Cheyenne all’inizio del viaggio, durante una conversazione con un tatuatore all’interno di un bar. Invece, è proprio grazie alla conoscenza di persone solitarie e malinconiche, con cui è possibile condividere paure e desideri, che il protagonista intravede la via della salvezza. È un’America antieroica, colma di individualità erranti, lontana dall’idea di persone alla ricerca sfrenata del raggiungimento dell’american dream (emblematica la scena in cui Cheyenne incontra l’inventore delle rotelle delle valigie).

Un film che senza dubbio non si colloca sul podio della filmografia di Paolo Sorrentino, ma che ben rispecchia i pregi registici: evidente la cura dell’immagine e delle inquadrature, della colonna sonora di David Byrne e della bellezza di dialoghi poetici e profondi, fortemente esistenzialisti; anche il contenuto è inerente alle tematiche legate a personaggi afflitti da crisi identitarie a causa della mancanza di figure genitoriali (come nell’ultimo capolavoro autobiografico È stata la mano di Dio). Sean Penn dona poi un’interpretazione strabiliante di cui è difficile non innamorarsi, lavorando magistralmente sull’inflessione della voce, sulle movenze rallentate e sulle espressioni empatiche, confezionando una prova fisica degna di lode.

Armato di pistola Cheyenne andrà a caccia del nazista per compiere l’ultimo (e forse l’unico) gesto d’amore nei confronti di un padre con cui non ha più intrattenuto rapporti. L’ex rock-star sparerà («to shoot» dall’inglese ha due significati: «sparare», «fotografare») con un’arma ancor più letale, più dolorosa, più efficacie, in grado di riportare sotto i riflettori l’importanza di preservare la memoria storica, poiché è proprio attraverso un cambiamento personale e individuale che si creano le basi per un futuro prospero.

A cura di Matteo Malaisi