Tokyo Sonata: fermarsi ad ascoltare

Piove dentro casa, la melodia di un pianoforte risuona nell’aria e una donna sembra sentirla insieme a noi. Subito dopo un uomo viene licenziato e si ritrova, come molti altri, in balia della precarietà. Decide di mentire e mascherare la situazione di fronte alla sua famiglia, ma rientra dalla porta sul retro, come se di colpo la sua identità avesse perso valore.

Nessun personaggio comunica con l’altro: i problemi devono essere risolti individualmente, chiedere aiuto diventa sinonimo di debolezza, come nella sequenza in cui la moglie semiaddormentata sul divano domanda sottovoce al marito di aiutarla ad alzarsi e lui non sente.  Lei ripete la richiesta tendendo le braccia verso l’alto, dice “qualcuno, per favore, mi aiuti ad alzarmi”. Ma non c’è nessuno, nessuno ha il coraggio di aiutare né di farsi aiutare, di andare a fondo, toccarlo, e ripartire da lì.

Kurosawa alterna riprese con steadycam ad inquadrature più statiche su cavalletto per trasmettere il senso di instabilità che provano i vari membri della famiglia, ma si tratta di un’instabilità confusa, rallentata, ancora latente. L’assenza di colonna sonora accentua quest’aspetto e evidenzia un’interiorità debole e asettica. C’è però ancora spazio per la catarsi, la simulazione è durata troppo a lungo: ognuno si appella al proprio desiderio di ricominciare, un desiderio intimo e individuale, impossibile da esprimere a parole ed amaramente incompatibile con il presente della società giapponese.

Per poche ore non viene più ostentato quel falso controllo sulle circostanze, i personaggi vagano in una Tokyo notturna e inospitale, dove l’umanità è finalmente svuotata da convenzioni e apparenze. La notte ci rivela quanto e come il fallimento sia sempre un costrutto sociale che aleggia sulle nostre teste in attesa del prossimo inciampo.  Il dramma è insito nella quotidianità, tra disoccupazione e divario generazionale. Lui indossa ancora la sua uniforme da lavoro, arancione come quella di un carcere, e attraversando un ponte crolla tra la spazzatura abbandonata in strada; lei cerca la spiaggia e il mare, una via di fuga immaginaria. Un pianto liberatorio, le onde, finalmente la musica.

E quale musica se non Le clair de lune?

“…Et quasi / Tristes sous leurs déguisements fantasques.”

“…Sono quasi / Tristi nei loro bizzarri travestimenti.”

È questa la melodia, il filo conduttore che svela le imperfezioni, le crepe di ciò che faticosamente vogliamo nascondere: è dunque una resa o l’indizio di una nuova speranza? Ciò che importa non è la risposta, ma la possibilità che il film dà di porci questa domanda.

 
 

A cura di Emma Onesti