Tom, Dolan e Bouchard
«Oggi è come se una parte di me fosse morta. Io non posso piangere perché ho dimenticato i sinonimi della parola tristezza. Adesso quello che mi resta da fare senza di te è sostituirti.» L’incipit di Tom à la ferme è un grido di dolore che si leva in voice-over mentre vediamo le parole prendere forma su un lieve velo di carta. Sorvoliamo il mare e ci ritroviamo su una lunga distesa di campi, un paesaggio pianeggiante che si perde nell’orizzonte. Sulle note della struggente Les moulins de mon coeur osserviamo dall’abitacolo case abbandonate, macchine arrugginite e bestiame al pascolo. Il navigatore non offre aiuto e la linea telefonica scompare, mentre una fitta coltre di nebbia ci impedisce la vista.
Il quarto lungometraggio di Xavier Dolan si presenta fin da subito come una voce fuori dal coro, nettamente distinto dalle precedenti opere. L’asincronia ci viene mostrata proprio nella primissima scena: in auto il suo canto spezzato non riesce ad andare a tempo con quello, potentissimo, di Kathleen Fortin. Un gioco musicale curioso, soprattutto se si considera che la colonna sonora è stata scritta a riprese concluse, visto che l’idea iniziale era stata quella di costruirlo senza musica, scandito solo dai suoni della natura. Da notare anche che si tratta della prima volta che il punto di partenza non è un soggetto originale di Dolan, bensì l’omonima pièce teatrale del connazionale Michel Marc Bouchard.
Quello a cui assistiamo è lo smarrimento di un ragazzo, dapprima geografico e successivamente psicologico. L’elaborazione della perdoita di Guillaume da parte di Tom (lo stesso Dolan), così come della madre Agathe (Lise Roy) e del fratello Francis (Pierre-Yves Cardinal), si sviluppa progressivamente in una relazione morbosa, dove il tentativo di sostituire le tessere del puzzle familiare dà vita a un perverso e straniante gioco di ruolo. Il crollo del protagonista segue una parabola ben precisa: dapprima perde gli occhiali (e quindi significativamente la vista), poi i vestiti e in ultimo l’automobile. Gli oggetti sono però solo la parte superficiale della morbosa dipendenza dalla volontà di Francis dal momento che anche le violenze seguono uno schema chiaro: dalla privazione del sonno si passa all’intromissione nella sfera dell’intimità.
Dolan, svincolato da problematiche di adattamento, è libero di comporre immagini curatissime che fanno della geometria la chiave per rinchiudere visivamente il suo personaggio. Stretti corridoi, anguste porta-finestre e luci oblique danno prova del minuzioso lavoro sul dettaglio. La scelta dei capelli biondi apre poi a una duplice suggestione. Se da un lato è evidente la volontà di far perdere visivamente Tom nella sterminata campagna, tra i busti dell’alto mais maturo, dall’altro il rimando potrebbe essere proprio ad Alfred Hitchcock. Gli indizi non mancano: le musiche tensive di Gabriel Yared ricordano da vicino quelle dei classici del maestro, la palette cromatica giocata prevalentemente sul colore verde potrebbe riproporre le atmosfere di Vertigo (accomunato anche dal tema della sostituzione) e, infine, i capelli biondi sono forse quelli delle tante protagoniste hitchcockiane, qui rivisitate dalla contraddittoria posizione del personaggio di Dolan chiamato ad essere contemporaneamente vittima, compagno di ballo e, più in generale, oggetto di perversioni sessuali.
Le intuizioni registiche però non si fermano e Dolan riesce, letteralmente, a fare la storia del cinema. Per ben tre volte è il formato cinematografico, e quindi il cinema stesso, a stritolare Tom, in una morsa orizzontale asfissiante. Oltre alla già citata scena nel campo di mais, il secondo momento è quello che vede il nostro protagonista passare dal punto più basso della sua parabola con il masochistico piacere provato nel ricevere le precorse, mentre, nel finale, il formato si chiude e poi si riapre (anticipando la meravigliosa scena del successivo e ben più noto Mommy) nella liberatoria sequenza conclusiva che lo vede fuggire dalle gabbie dell’inferno rurale in cui era precipitato.
I titoli di coda ci mostrano Montreal tirando le fila di una contrapposizione tra campagna e città, centro e periferia che era già stato tema al centro del precedente Laurence Anyways. Lo scontro finale (propiziato dal dialogo con un barista speciale, interpretato dal padre Manuel Tadros) avviene esplicitamente tra le divisa del Canada e quella degli Stati Uniti: una rivendicazione di libertà autoriale chiara e simbolicamente avvalorata dalla riappropriazione dei propri indumenti e quindi di una definitiva indipendenza.
A cura di Andrea Valmori