Traffic e la padronanza del linguaggio cinematografico di Soderbergh
Per quanto gli Oscar non siano indice del valore o dell’importanza di un film, vincerne quattro di solito è garanzia di qualità, e non fa eccezione Traffic di Steven Soderbergh. Regista eccentrico che non ha paura di osare, nella sua carriera ha alternato pellicole sperimentali a basso costo, come il chiacchierato The Girlfriend Experience, noto per l’impiego dell’attrice pornografica Sasha Grey nel ruolo della protagonista, a opere ad alto budget con cast corali ed attori affermati, quali Ocean’s Eleven o Magic Mike. Soderbergh ha dimostrato di saper fare veramente tutto: che sia un film sullo spogliarello o heist movie, girarlo non è un problema. Nella sua prolifica carriera non poteva mancare quindi un poliziesco come Traffic, il quale si occupa di sviscerare il fenomeno della cosiddetta guerra alla droga, seguendo parallelamente tre storyline distinte: la prima ambientata in Messico si occupa di seguire due poliziotti nella loro caccia al cartello di Tijuana; la seconda è incentrata sulla vicenda di due agenti sotto copertura di San Diego; la terza segue infine la parabola del nuovo capo del dipartimento antidroga, sia in ambito familiare, con la dipendenza della figlia, che istituzionale.
Soderbergh dimostra qui una straordinaria competenza tecnica, sapendo mettere in scena situazioni ed emozioni diverse con grande precisione. Il regista il linguaggio del cinema lo sa parlare bene e in Trafficnon si fa problemi a dimostrarlo: ogni inquadratura, ogni movimento, è studiato ad hoc. L’esempio più lampante è anche la caratteristica che ai più ha fatto storcere il naso, ossia il costante oscillare della cinepresa, il cosiddetto effetto shaky camera che ha di recente preso piede nel cinema d’azione. Il regista non lo usa per dare movimento, bensì per darci l’impressione di essere lì, prima nella Casa Bianca con Michael Douglas, poi in macchina con Benicio del Toro a pattugliare le strade di Tijuana. Una scelta del genere, in linea puramente teorica, dovrebbe però cozzare con il viraggio effettuato sulle sequenze ambientate in Messico e a Washington, che appaiono rispettivamente arancione e blu. Il viraggio è un processo chimico che veniva utilizzato per rendere la pellicola più stabile, affinché si rovinasse meno col passare del tempo; ad oggi, tuttavia, se si utilizza questa pratica è per fini meramente estetici.
Per quanto il realismo della ripresa mossa sia in netto contrasto, concettualmente, con l’artificiosità del viraggio, i due elementi si sposano perfettamente per un motivo molto semplice: sono entrambi strumenti per far sentire più coinvolto lo spettatore. Soderbergh, con mestiere, sceglie di tingere la pellicola di arancione quando osserviamo i fatti in Messico, e di blu quando ci mostra i fatti di Washington, più nello specifico quelli riguardanti la storyline della ragazza interpretata da Erika Christensen, la figlia del giudice Wakefield, alias Michael Douglas. Il motivo della scelta è presto detto: l’arancione serve a comunicare un calore quasi opprimente, assimilabile alla situazione spinosa dei protagonisti messicani, mentre il blu è il colore della tristezza, emozione che certamente si addice al racconto della dipendenza da stupefacenti.
I due elementi servono quindi a trasmettere qualcosa di preciso allo spettatore: il primo a farlo sentire con i personaggi, il secondo a farlo sentire come i personaggi. È una soluzione raffinata, per un film appartenente a un genere come il poliziesco che, solitamente, non si lascia andare a particolari espressioni di estro cinematografico. Per questo motivo Traffic è, seppur al netto di un ritmo lento che può non piacere, una grandissima lezione di cinema, e perciò merita sicuramente di essere visto.
A cura di Francesco Colombo