Triangle of sadness: “beauty as a currency”
Dopo aver vinto due Palme d’oro per due film consecutivi, Ruben Östlund sbarca agli Oscar con ben tre nomination per il suo esordio in lingua inglese: Triangle of sadness. Un’opera che, come molti hanno fatto notare, riesce stranamente a piacere all’élite, vista sia la vittoria a Cannes che gli ingenti finanziamenti in fase di produzione, nonostante la prenda in giro per tutta la sua durata. Che l’opera di Östlund sia forse più reazionaria di quel che appare? «That’s the good thing about capitalism», dice Östlund in un’intervista sul podcast Q with Tom Power, «as long as they think they can profit from it, they will finance any ideology».
La pellicola è divisa in tre atti, il cui filo conduttore sono i due protagonisti, Carl e Yaya, entrambi modelli/influencer. Triangle of sadness si apre con una cena romantica tra i due, durante la quale nasce una litigata su chi dovrebbe pagare il conto; il secondo atto è invece ambientato su uno yacht, dove i ragazzi, in cambio della pubblicità social, prendono parte ad una crociera assieme a dei ricchi imprenditori. In mezzo a milionari ed altri personaggi grotteschi, che spaziano dal venditore di fertilizzanti a quello di armi, il capitano, che si dichiara apertamente marxista, decide di tenere una cena durante una notte di mare mosso, che poi sfocia in tempesta. Gran parte dei passeggeri si sente male, e la mattina, quanto la tempesta sembra cessata, una nave di pirati assale lo yacht, facendolo affondare. I superstiti, allora, si trovano sperduti su un’isola apparentemente deserta, dove l’ancora di salvezza sembra essere una delle inservienti, che a differenza dei ricchi passeggeri sa come sopravvivere in un ambiente così inospitale.
Östlund si diverte a creare situazioni in cui i suoi personaggi sono in difficoltà: «Three different chessboards in which I play with the characters», dice. Quasi come un Bobby Fisher della sceneggiatura, il regista crea disposizioni in cui i ricchi protagonisti del suo film, messi davanti a complicate questioni morali, devono mettersi in gioco, devono pensare e decidere per loro stessi. «I like to see humans fail […]. My films are my little sociology experiments» dichiara nella stessa intervista. Non c’è gusto nella semplicità: la celluloide deve essere impregnata di dilemmi morali.
Sono dichiarazioni abbastanza forti quelle del regista, ed il film effettivo non sempre riesce a reggere il confronto con quello nella mente di Östlund. Certo è che non mancano le trovate interessanti, nonostante la pellicola perda man mano verve satirica ed alle volte rimanga impigliata in scene protratte più del dovuto. Forse grazie anche alla propria prolissità, ciò che Triangle of sadness vuole fare risulta abbastanza chiaro: capovolgere le dinamiche di potere e vedere come i suoi personaggi si comporterebbero se il loro status cambiasse radicalmente. Partendo dall’industria della moda, un mondo dove le donne guadagnano più degli uomini, per finire in un’isola deserta, dove il capitano della banda di sopravvissuti è una semplice inserviente. Al netto di una fotografia non particolarmente ispirata e di una durata sicuramente eccessiva, la pellicola riesce comunque a strappare qualche sorriso allo spettatore e magari anche a farlo riflettere, osservando come la bellezza sia usata, in mancanza di soldi, come una vera e propria valuta, e come ciò che rende le persone più o meno crudeli, più o meno prevaricatrici, non sia altro che il potere.
Insomma, seppur Östlund protragga la riflessione più del dovuto, lo fa con un certo stile e con diversi spunti, per quanto, forse, abbia la strana e peculiare dote di prendere una posizione che può sembrare essere, in linea di massima, sempre d’accordo con quella dello spettatore.
A cura di Francesco Colombo