Vergine giurata: la femminilità perduta
Hana vive tra le montagne del nord dell’Albania, dove vige una società patriarcale che priva le donne di ogni tipo di libertà: nasce proprietà del padre e diventa proprietà del marito. Decide quindi di sfuggire a queste imposizioni diventando «vergine giurata» e in seguito andando in Italia per ritrovare la sorella fuggita tempo prima. L’opera prima di Laura Bispuri, è tratta liberamente dal romanzo di Elvira Dones e racconta la storia del personaggio di un’eccellente Alba Rohrwacher attraverso un bilanciatissimo montaggio che alterna le immagini del presente a ciò che è stato il suo passato.
Ma chi sono le vergini giurate? Tutti conosciamo il significato di vergine, ma per la maggior parte degli spettatori è quasi impossibile conoscere la reale connotazione culturale. Le «vergine giurata», la burrnesha, è colei che decide di diventare uomo, vestendosi come tale, rifiutando quindi di essere donna per accedere a tutti i privilegi degli uomini, facendo però un giuramento di castità, rinunciando al matrimonio e alla possibilità di metter su famiglia. Questi privilegi sono in realtà semplici atti quotidiani, come fumare, bere alcolici, in particolare il raki, una grappa tipica albanese, sparare con il fucile, trovarsi un lavoro e andare in giro per strada da sole. Ciò che per le persone comuni può risultare scontato, rappresenta per le giovani giurate una vera e propria conquista della libertà. Si tratta, dunque, di una consuetudine che ha origini molto antiche, derivanti dal Kanun, un codice di comportamento della tradizione di alcuni paesi dell’Albania. Il motivo che spinge le donne a prendere questa decisione drastica è spesso legato alla volontà di sfuggire ai matrimoni combinati e per poter affermare la propria autonomia. Le burrnesha diventavano tali dopo una cerimonia dinanzi agli anziani della comunità patriarcale, caratterizzata dalla vestizione e dal taglio dei capelli e dal giuramento di rimanere vergine per l’eternità.
Vergine giurata è un film che risulta godibile, ma soprattutto interessante per offrire allo spettatore il privilegio di poter spiare una realtà molto lontana dalla nostra e pressoché sconosciuta. Agghiacciante dal punto di vista psicologico la scena del passaggio del proiettile: usanza che consiste nella consegna di un proiettile, da parte del pater familia alla figlia, destinato al futuro marito. Simbolo che dimostra come gli uomini abbiano pieno potere decisionale sulle sorti delle proprie mogli, a seconda del loro comportamento.
La pellicola è ricca di metafore riconducibili alla condizione della donna, come le scene girate all’interno della piscina (non a caso è proprio in questo luogo che riscopre la sua femminilità), dove Hana si reca per guardare la nipote mentre pratica il nuoto sincronizzato: sport prettamente femminile che richiede un grande sforzo fisico, celato dietro al volto sempre sorridente delle nuotatrici. Inoltre, si tratta di uno sport che richiede una particolare abilità di apnea, metafora della condizione esistenziale di Hana ancora intrappolata e soffocata da un passato che la rende prigioniera. Il film trasmette, in maniera più sottile, non solo una riflessione sul trattamento disumano delle donne albanesi, bensì una delicata riflessione sulla condizione contemporanea della donna, spesso intrappolata da standard di bellezza imposti dalla società, canoni che costringono in qualche modo a soffocare la propria unicità e ad inseguire falsi modelli di femminilità.
A cura di Matteo Malaisi