Waiting for the Barbarians: ingiustizia al potere

A causa delle ben note vicissitudini giudiziarie di Johnny Depp, da qualche anno il suo talento è stato ostracizzato dal jet set hollywoodiano. Waiting for the Barbarians è una delle poche produzioni ad averlo accolto e lui (come d’abitudine), ha contribuito abilmente ad un’opera differente, ma attuale. Essa presenta una forte polemica storica, in cui il colonialismo occidentale viene posto sulla sedia dell’imputato e giudicato colpevole.

Il film si apre in quella che in Grecia si sarebbe definita una “città-stato”, avente un massimo di duecento cittadini e governata da un “magistrato” (Mark Rylance) che applica le regole del buon senso più che le leggi statali. Si tratta di un governatore che conosce personalmente i suoi concittadini, che chiacchiera con loro amichevolmente e che punisce paternamente i trasgressori. Tuttavia, l’arrivo del colonnello Joll (Johnny Depp) cambia le carte in tavola. Il forestiero entra in città su una carrozza che incute timore e indossa degli inediti occhiali da sole, che disorientano la folla. A differenza delle semplici uniformi locali, Joll veste una divisa blu fiammante che ne evidenzia immediatamente l’estraneità culturale.

In poco tempo, l’armonia all’interno del villaggio svanisce. Con la spocchia tipica dei conquistatori, prima Joll, poi i suoi sottoposti, mettono in pratica i classici mezzi da Chiesa del ‘600: tortura, confessioni travisate, uccisioni sommarie, pena di morte. In più, un rudimentale ma efficace utilizzo della propaganda, che si potrebbe sintetizzare così: «Il potere ha un nemico: i barbari. Questi si stanno armando contro di noi. Il nostro compito è sconfiggerli prima che ci attacchino». In verità, i cosiddetti “barbari” erano solo qualche tribù nomade, che per definizione si sposta e vive alla giornata. Nondimeno, i proclami iniziano ad avere effetto. Vengono spettacolarizzate le torture e tra la popolazione inizia a serpeggiare l’odio e l’invidia. Rimasto l’unico baluardo del vecchio mondo, il magistrato cercherà di difendere fino all’ultimo il proprio operato e la propria gente.

La prova attoriale di Mark Rylance è magistrale. Poche volte l’attore si era visto nel ruolo principale di una pellicola così popolare. Eppure, ha saputo sopportare il peso di un’opera che basava il suo successo principalmente sulle capacità attoriali del protagonista. Il suo sguardo ha saputo trasmettere emozioni profonde, come malinconia, amore, rabbia e senso dell’onore. La fotografia del regista colombiano Ciro Guerra, al primo film in lingua inglese, è spettacolare. Il messaggio del film, che poi è quello del romanzo omonimo da cui è stata prodotta l’opera, è una forte critica contro il potere e un’amara provocazione storica. Infatti, la trama è facilmente riconducibile al colonialismo occidentale del XIX secolo, quando (e ormai è acclarato), ci siamo comportati in modo tutt’altro che elegante.

A cura di Alessandro Randi