Women talking: 48 ore per la rivoluzione
Nei primi anni 2000 in una colonia mennonita della Bolivia, donne, ragazze e bambine si svegliavano spesso doloranti, sanguinanti e con il corpo segnato da innumerevoli lividi. Non sapendo trovare una spiegazione ragionevole, attribuivano queste violenze ai fantasmi o a Satana che la notte si introducevano nelle stanze private delle donne per punirle per i loro peccati. Aprendosi l’una con l’altra e confrontandosi sulle loro esperienze, queste donne vengono accusate di voler attirare l’attenzione e di inventarsi tutto. Eppure, i segni ci sono, sono marchi ben visibili sulla pelle di tutte loro. Dopo anni la verità viene a galla e non è per niente piacevole: gli uomini, i loro mariti o fratelli, narcotizzavano le loro compagne con un sedativo per mucche in modo da renderle incoscienti e abusare di loro ogni qualvolta volessero.
Women talking, trasposizione cinematografica del romanzo Donne che parlano di Miriam Toews, riprende i fatti del libro ambientandoli nel 2010 in una colonia mennonita senza nome né luogo. La vicenda si svolge nell’arco di 48 ore, il breve periodo di tempo che queste donne hanno a disposizione per decidere cosa fare prima che i loro abusatori tornino in città. Le alternative sono tre: non fare niente, restare e combattere o andarsene. Ciò che accade in queste 48 ore è che donne abituate ad essere trattate come animali, scoprono di avere delle idee, di essere in grado di esprimerle e di poter finalmente decidere del loro destino. Alcune di loro sono convinte che la scelta migliore sia andarsene, altre, più combattive, che sia il caso di restituire un po’ di quella crudeltà ai loro aguzzini per prendersi una sorta di rivincita dopo tutto il male subito, cercando di cambiare le cose. Solo un uomo è ammesso a questa riunione clandestina: si tratta del maestro di scuola elementare dei ragazzi della comunità, scelto perché è l’unico a saper leggere e scrivere (le donne sono tutte analfabete) e dunque l’unico a poter redigere il verbale.
Come se fossero in un’aula di tribunale, le donne passano in rassegna tutti i soprusi praticati dagli uomini della comunità, accusandoli e presentando prove concrete e facendo loro un vero e proprio processo. Gli imputati non sono fisicamente presenti: la regista sceglie strategicamente di non far vedere mai nessuno di loro sia perché il film è incentrato sulle donne, sia perché mostrandoli si darebbe loro una certa visibilità ed è chiaro che non se la meritino. Ad eccezione del personaggio di Ben Whishaw (l’unico alleato, scelto dalle donne che non esitano a ricordargli il suo ruolo di semplice segretario), il contributo maschile del film si vede solo nelle conseguenze che il suo passaggio provoca (dalle ferite sui corpi delle donne, al panico nei loro occhi quando capiscono che il tempo sta per scadere). Vengono inquadrati solo i volti dei bambini in quanto pericolosi perché già intrisi di cultura patriarcale, ma ancora malleabili e con qualche possibilità di cambiare le loro abitudini, tanto che si discute se portarli via oppure lasciarli alla comunità.
La forza del film sta nella sceneggiatura, brillante, vibrante, coinvolgente e a tratti poetica e spirituale, supportata e accompagnata da una fotografia desaturata e fredda che rende anche visivamente la crudeltà della storia. Intrecciando esperienze provenienti da donne di tre generazioni diverse, le protagoniste di questo intenso dramma, basato su una storia vera, dimostrano che nessuna comunità può continuare a sussistere senza l’apporto femminile. Una volta assimilata questa consapevolezza, il potere passa interamente nelle loro mani e diventa l’arma principale di una rivoluzione cominciata con le parole.
A cura di Gloria Sanzogni