La giovinezza: sospendersi per cambiare
Sulle note di You Got The Love, nella versione dei The Retrosettes, iniziamo a roteare con i musicisti attorno a figure di donne e uomini che si stagliano, ballando, nella penombra. Compaiono due figure funeree, una madre con la figlia, osservate malinconicamente da Mick (Harvey Keitel) e poi la musica si ferma.
È in questo silenzio che conosciamo il maestro Fred Ballinger (Michael Caine) intento a dialogare con un emissario di sua Maestà Elisabetta II, desideroso di ingaggiarlo per un ultimo grande concerto. «Le monarchie fanno sempre tenerezza», afferma il compositore, in una posizione di rifiuto ferrea, inamovibile che intimorisce. Pone la mano alla tasca della giacca ed estrae la carta di una caramella Rossana che, mossa ritmicamente, dà vita alle immagini del film in una perfetta corrispondenza tra suoni e movimenti. Infine, riconosciamo Diego Armando Maradona uscire esausto dai vapori di una piscina, mentre le corde della chitarra di Mark Kozelek danno forma alla sua Onward.
Youth può rappresentare la quadratura del cerchio rispetto all’esito dei lungometraggi precedenti del regista napoletano. Se This Must Be the Place era stato l’eccezione entro la regola, entro cioè la prassi produttiva italiana, il film del 2015 (così come successivamente The Young Pope e The New Pope) è nuovamente co-produzione dall’ampio respiro internazionale. Michael Caine e Harvey Keitel sono al centro della meditazione sorrentiniana sul tema della terza età e, ritornato a un ruolo per così dire solista, di una scrittura protagonista assoluta. In rapporto alle produzioni internazionali, cruciale diventa così proprio il rapporto con gli interpreti. Se in Italia, fatta eccezione per Servillo, la sceneggiatura viene scritta prescindendo dalla scelta degli attori, This Must Be the Place era invece stato scritto appositamente per Sean Penn. La ricerca di divi della storia del cinema come Michael Caine, Harvey Keitel e Jane Fonda si inserisce quindi coerentemente nel clima meta-cinematografico che attraversa Youth.
A conferma di tutto ciò, le parole di Servillo: «A Paolo piacciono molto quei personaggi non più molto giovani, che pur avendo raggiunto dei risultati nella vita, a un tratto perdono tutto. Gli piace raccontare cosa succede a partire da quel momento, descrivendo su un piano metaforico e simbolico malinconie, ambizioni e miserie. Pur nelle distanze siderali che ci sono tra un personaggio e l’altro, mi sembra che tutti siano visti in un momento in cui raggiungono un apice e poi precipitano giù […]. Mi sembra che sia questo lo schema dei racconti di Paolo, il leitmotiv alla base dei suoi film». La solitudine, la caduta hanno come risultato immediato un sentimento: la noia. Noia di vivere, noia del quotidiano, noia subita ma anche ricercata, nuovamente, per dare libero sfogo alla fantasia: «La noia è esattamente la piattaforma necessaria per cominciare a creare dei mondi paralleli. Solo annoiandosi del mondo si ha la possibilità di creare un proprio mondo e creare un proprio mondo forse è la massima priorità per scrivere un racconto, per scrivere un film».
La noia è uno stato d’animo nel tempo, nel presente, che conduce inevitabilmente a uno sguardo retrospettivo sulla vita, sempre e immancabilmente seguito da un sentimento di infinita sorpresa verso un futuro che parrebbe non promettere nulla. Ma è poi proprio l’infrangersi di questo stato di noia, doloroso, di questo presente morbosamente miope a rappresentare quella che in Youth viene definita giovinezza. La giovinezza non è però per tutti, il futuro è possibile solo per alcuni: fondamentale è gettare la maschera, tornare a far scorrere la vita, proprio quando sembrava essersi definitivamente spenta.
A cura di Andrea Valmori